La Terra fornisce abbastanza per soddisfare i bisogni di ogni uomo, ma non l’avidità di ogni uomo.

Mahatma Gandhi 

I primi, più evidenti effetti del cambiamento climatico, cioè la sempre maggior frequenza di eventi meteorologici estremi quali uragani, alluvioni, siccità, picchi di caldo, eccetera, sono ormai parte della cronaca quotidiana. Meno evidenti, perché quasi mai di essi si sono occupati i media, sono altri effetti, quali le migrazioni, le malattie, i conflitti, e la riduzione della produzione agricola che il cambiamento climatico induce. E questa sottoesposizione mediatica non ci fa cogliere la gravità della situazione. Ancora meno evidente, perché mai se ne è detto, è l’effetto dirompente che avrebbe sul nostro modello di sviluppo, sui nostri stili di vita, sul nostro modello sociale e culturale la effettiva messa in atto degli accordi di Parigi sul clima.

Parliamone, allora, di questo effetto dirompente.

Secondo l’UNEP, per raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi, cioè di mantenere, a fine secolo, l’incremento di temperatura della Terra a meno di 2 °C rispetto al valore pre-industriale, le emissioni di gas serra (cioè i gas che causano l’effetto serra che determina l’aumento della temperatura) devono essere ridotte a zero nel periodo 2060-2075; ciò implica che entro il 2050 le emissioni attuali dovrebbero essere ridotte del 55%, oltre la metà. Purtroppo, sottolinea pure l’UNEP, siamo ben lontani da questa riduzione e continuando così le cose, l’incremento di temperatura a fine secolo supererà i 3 °C, con drammatiche conseguenze per tutti noi.

Ma allora, cosa dobbiamo fare per invertire l’attuale andamento e riuscire a soddisfare l’obiettivo dei 2 °C?

Per dare una risposta a questa domanda occorre prima di tutto sapere da dove vengono queste emissioni, che comprendono oltre alla nota CO2, anche il metano, gli ossidi di azoto e i fluoruri.

Le emissioni di CO2, sono le più cospicue (il 65% del totale) e vengono principalmente da tre settori:

  • Edilizia: che è responsabile del 29% delle emissioni di CO2, che corrisponde al 19% delle emissioni totali (quelle che includono metano, ossidi azoto, ecc., e non solo CO2).
  • Industria: che è responsabile del 44% delle emissioni di CO2, corrispondente al 29% del totale.
  • Trasporti: 23%, corrispondente al 15% del totale.

Come si possono ridurre queste emissioni, fino a portarle a zero in circa 50 anni da ora? Cosa dovrebbe cambiare? Vediamo.

Il settore dell’edilizia

Secondo le stime della Global Alliance for Buildings and Construction, costruiremo fra ora e il 2050 il 46%, quasi la metà, del parco edilizio mondiale che esisterà a quella data.

Pure se nel 2050 nei paesi sviluppati tutti gli edifici saranno a energia zero, il che è molto improbabile, resta il fatto è che la maggior parte delle nuove costruzioni si farà nei paesi in via di sviluppo: 163 miliardi di m2, pari all’85% del totale. Per avere un’idea delle quantità in gioco, si tratta di una superficie pari a 56 volte la superficie di tutti gli appartamenti esistenti in Italia.

Riesce difficile pensare che, a fronte di una crescita di questa portata, si possano ridurre le emissioni del settore edilizio nei paesi in via di sviluppo, nella maggior parte dei quali, fra l’altro, non esiste attualmente alcuna legislazione sulla efficienza energetica degli edifici. Difficile, se non impossibile, anche ripensando interamente il modo di progettarli e costruirli, a partire dai materiali (ricordiamo che oltre il 10% delle emissioni di CO2 è dovuta alla produzione dei materiali da costruzione: cemento, ferro, vetro, alluminio), e ripensando anche il modo di progettare le città. Inoltre, poiché le emissioni del settore sono causate, oltre che dal riscaldamento e dal condizionamento, anche dalla produzione della elettricità consumata per alimentare gli elettrodomestici e le apparecchiature elettroniche che ormai riempiono le nostre case, tutte queste emissioni non potranno che aumentare man mano che le condizioni economiche dei paesi in via di sviluppo miglioreranno.

Per raggiungere l’obiettivo emissioni zero prima della fine del secolo gli edifici, dunque, dovrebbero essere realizzati in modo da fornire mediante fonti rinnovabili tutta l’energia che consumano, più quella che è servita per costruirli. Una rivoluzione del mercato immobiliare e dell’urbanistica.

Il settore industria

Veniamo al settore industria, quello che emette più CO2. Il miglioramento delle condizioni economiche dei paesi in via di sviluppo, in cui il tasso di crescita del PIL sarà, in media, molto più alto di quello dei paesi sviluppati, necessariamente porterà ad una impennata della domanda di prodotti di consumo (per la casa e per la persona), dei trasporti (auto, camion, treni e autobus) e per la costruzione delle infrastrutture, oltre che di edifici.

Un esempio significativo viene dall’industria degli autoveicoli. Nel 2015 circolavano nel mondo 1,282 miliardi di veicoli, di cui il 74% automobili e il 26% veicoli commerciali, oltre la metà dei quali nei paesi sviluppati, dove però vive solo il 18% della popolazione mondiale.

Secondo la McKinsey per il 2030 più di due miliardi di persone entreranno a far parte della classe media, e molte di queste vorranno acquistare un’automobile; di conseguenza all’attuale flotta di circa un miliardo di automobili circolanti se ne aggiungerà un altro. Proseguendo con lo stesso ritmo dal 2030 al 2050 si aggiungerà ancora un altro miliardo di auto. E queste sono le auto che si aggiungono a quelle esistenti, che non sono eterne: fra il 2015 e il 2050 bisognerà rimpiazzarne, e fabbricarne, 3 miliardi. In totale, quindi, circa cinque miliardi di auto da fabbricare nei prossimi 40 anni.

Un discorso analogo a quello fatto sulle auto può estendersi a qualsiasi altro bene di consumo, le cui quantità prodotte aumenteranno drammaticamente. Dunque, per quanto si possa ricorrere alla efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, la crescita della domanda non potrà far diminuire le emissioni del settore industria. Per diminuirle non c’è altra soluzione se non quella di ridurre la produzione, ma non di tutto, ovviamente, sarebbe una catastrofe, solo di quei beni che soddisfano bisogni indotti e non necessari ai fini del miglioramento della qualità della vita, cioè abolendo il consumismo. Ma non basta. A questa pur ridotta produzione bisognerà applicare tutti i principi dell’economia circolare, in cui i prodotti sono, come indica la Commissione Europea “ripensati per essere utilizzati più a lungo, riparati, ammodernati, rifabbricati o, alla fine, riciclati, invece di essere gettati via…sviluppando i necessari servizi per i consumatori … (servizi di manutenzione, riparazione ecc.) ….e incoraggiando i consumatori ad orientarsi verso servizi di noleggio, prestito o condivisione invece dell’acquisto”. La piena applicazione dell’economia circolare, quindi, comporta una drastica riduzione della quantità di beni prodotti, e parliamo di quelli realmente necessari, spostando le attività economiche dalla produzione, che comunque tende ad essere sempre più affidata ai robot, alla manutenzione. In definitiva, per combattere il cambiamento climatico bisogna abbandonare l’attuale modello economico, basato sulla crescita indefinita della produzione di beni e servizi, alimentata dal consumismo e dal modello “fai-usa-getta”.

Il settore trasporti

La sfida che si trova ad affrontare il settore non è da poco. Per averne un’idea basti pensare che, occorre dimezzare le attuali emissioni globali dovute alle automobili, per esempio, e bisogna farlo con una flotta circolante che aumenta di 60 milioni di unità all’anno. Per quanto possa migliorare l’efficienza delle autovetture, è un traguardo irraggiungibile.

Né i veicoli elettrici possono essere la soluzione risolutiva, a meno che quasi tutta l’energia elettrica che alimenta i veicoli non venga fornita esclusivamente da fonti rinnovabili, e non ci sono segnali che si stia andando in questa direzione, anche perché occorrerebbe produrre una enorme quantità di energia elettrica addizionale.

E non ci sono solo le automobili. C’è il sistema del trasporto merci che, secondo l’IPCC nel 2009, ha consumato il 45% di tutta l’energia impiegata nel settore trasporti, quando ancora l’e-commerce – che contribuisce all’aumento dei consumi nel trasporto merci – non aveva assunto le proporzioni che ha oggi. La maggior parte delle emissioni, comunque, derivano dal trasporto merci internazionale (gomma ferro, mare, aria), che l’International Transport Forum (ITF) stima che pesino per il 30% del totale delle emissioni di tutto il settore trasporti, e che per il 2050 sono destinate a quadruplicarsi, o almeno a triplicarsi anche se si tiene conto di possibili innovazioni tecnologiche. Ciò in coerenza col miglioramento delle condizioni economiche di miliardi di persone e della globalizzazione.

Il solo modo per ridurre le emissioni del settore trasporti, quindi, passa attraverso la riduzione sostanziale del movimento delle persone e delle merci su mezzi motorizzati. Anche questo è un colpo al cuore del modello economico e sociale attualmente vincente, che dovrebbe essere interamente riformato. Beni che vengono da lontano dovrebbero essere penalizzati, e questo inciderebbe, per esempio, sull’abbigliamento (vedi articolo À la mode) prodotto nei paesi in via di sviluppo, sulle abitudini alimentari (per noi italiani eliminando gli ananas quando ci sono le arance, e le arance fuori stagione che vengono dal sud Africa), e il turismo compulsivo mordi-e-fuggi dovrebbe essere combattuto.

Per completare, bisogna considerare che una quota non indifferente delle emissioni riguarda il metano, gli ossidi di azoto e il cambiamento dell’uso del suolo (questo entra in gioco tutte le volte che un bosco, per esempio, viene sostituito con un campo coltivato o con una espansione urbana; allora la CO2 che prima veniva assorbita dalle piante non lo è più, o lo è in misura notevolmente minore; questo corrisponde, nel bilancio dei gas climalteranti, alla aggiunta di una nuova fonte di emissioni).

E qui entra in campo un nuovo commensale nel banchetto delle emissioni: l’agricoltura. Il settore agricoltura, foreste e altri usi del suolo produce il 24% alle emissioni globali di gas di serra, quasi interamente dovute alla produzione agricola e all’allevamento (Vedi articolo L’ombra lunga dell’allevamento). È una quota imponente, seconda per importanza dopo quella dell’industria, che può essere ridotta solo mettendo in discussione l’attuale modello economico e intervenendo sui nostri stili di vita.

Questo è il quadro, ma ci si sente obiettare:

  1. L’informatica e la telematica, attraverso l’intelligenza artificiale, risolveranno tutti i problemi. Permetteranno di ridurre i consumi energetici negli edifici, nei processi industriali, nei trasporti. Certo, un contributo verrà, ma non si può sopravvalutare né, soprattutto, se ne possono ignorare gli “effetti collaterali” a cui dà luogo.
  2. Le fonti rinnovabili sono in crescita e possono interamente sostituire quelle fossili. Oggi la quota di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili si attesta a circa il 24% del totale, con il contributo largamente prevalente dell’energia idroelettrica. Considerato che, non fosse altro per ragioni ambientali, la produzione idroelettrica su grande scala non potrà avere ulteriore grande sviluppo, quasi tutto l’incremento dovrà basarsi sull’energia solare, sull’eolica e sulla biomassa. Energia solare ed eolica sono però caratterizzate dal fatto di non essere programmabili, cioè sono il sole, il vento e le nuvole a decidere quando, quanto e se produrre, non l’andamento della domanda, Da questo discende che la rapidità e l’entità della crescita della produzione di energia elettrica e termica da fonti rinnovabili è vincolata da due principali fattori:
  • la necessità di ristrutturare tutto il sistema elettrico, che deve diventare un sistema di generazione distribuita e che deve integrare sistemi di accumulo diffusi assieme a tecnologie dell’informazione e della comunicazione che sono alla base del funzionamento delle mini grid (diventando così smart grid);
  • la competizione dell’uso del suolo con la produzione agricola, che diventerebbe significativa in caso di grande espansione del fotovoltaico e delle colture energetiche.

Il primo fattore è limitante a causa degli enormi investimenti che si richiedono per effettuare la trasformazione; investimenti con un ritorno molto a lungo termine, che difficilmente sarebbero affrontati in una economia di mercato come quella in cui siamo immersi. Senza contare il fatto che la costruzione delle infrastrutture necessarie ha un costo energetico, e quindi nuove emissioni, specialmente a causa della costruzione delle batterie. Il secondo è ancora più critico, perché una crescita economica illimitata porta inevitabilmente (non c’è green economy o decoupling che tenga) a una crescita illimitata dei consumi di energia e materie prime, e quindi a una espansione sempre crescente di territorio destinato alla produzione energetica e all’estrazione invece che a alla produzione agricola che – al contrario – dovrebbe essere aumentata per fare fronte alle esigenze della crescente popolazione mondiale.

E allora? Allora bisogna rifarsi a una citazione di Albert Einstein, quando dice che non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di pensare che abbiamo usato quando li abbiamo creati. Quindi non possiamo risolvere il problema del cambiamento climatico con il libero mercato, il consumismo, la globalizzazione, la crescita indefinita, che ne sono stati la causa. Non possiamo, cioè, risolverli con il modello di capitalismo nel quale viviamo. Prendiamone atto, una volta per tutte, e ripartiamo da questo.