In un mondo dove tra le prime dieci imprese globali ben sette sono i noti “titani del Web” (Forbes, 2018) diventa urgente capire il ruolo dell’informatica e dell’intangibile nella creazione del valore e il suo impatto sulla società e sull’ambiente.

Valore di mercato (in milardi di dollari)

  1. Apple (926),
  2. Amazon (777),
  3. Alphabet-Google (766)
  4. Microsoft (750)
  5. Facebook (541)
  6. Alibaba (499)
  7. Berkshire Hathaway (491)
  8. Tencent Holdings (491)
  9. JPMorgan Chase (387)
  10. Exxon Mobil (344)

(Fonte: Forbes, Giugno 2018)

Nella vecchia fabbrica di merci materiali ci sono state raffinate analisi che hanno spiegato la contraddizione capitale – lavoro, la “produzione di merci a mezzo di merci” (Sraffa, 1999), nella fabbrica dell’intangibile analisi profonde sono ancora tutte da fare (Fassio e Nicolodi, 2018).

Un esempio, il gigante delle vendite online Amazon sta occupando ogni spazio di mercato e algoritmi sofisticati permetteranno di prevedere con altissima precisione i gusti dei consumatori. Si potrà passare dal tradizionale shopping-then-shippingprima si acquista e poi si richiede spedizione – al nuovo shipping-then-shoppingprima si riceve la merce (che non era stata acquistata ma che, con altissima probabilità, era nelle aspettative del consumatore) e poi si paga; evidentemente è stato stimato come trascurabile il rischio che il consumatore rimandi indietro la merce non desiderata: “ti arriva a casa la spesa che non hai ancora nemmeno pensato“! Ma tutto questo comporta incrementi esponenziali dei consumi e dei relativi trasporti di merci (Agrawal et al., 2018). In un mondo dove oltre quattro miliardi di esseri umani sono sempre interconnessi (dati Dicembre 2017, Internetworldstats, 2018) si pone seriamente la domanda: ma tutto questo fino a quando sarà sostenibile? Perché é così difficile connettere informatica e sostenibilità?

Prima del 2013 pochissimi ricercatori si sono posti questa “uncomfortable question“, diversi lavori hanno provato ad indagare la produzione e il ciclo di vita delle “macchine per eseguire algoritmi” (computer, smartphone, apparati di rete, etc.), il loro consumo di energia, e la gestione dei rifiuti elettronici (Fairweather, 2011; Whitehouse e al., 2011; Patrignani e Kavathatzopoulos, 2012). Fortunatamente dal 2013, dalla prima conferenza internazionale ICT4S, ICT for Sustainability, a Zurigo, una importante comunità di ricercatori si è dedicata a questi temi così fondamentali per il futuro (ICT4S, 2013). Le principali domande di ricerca aperte sono: è possibile applicare i principi dell’economia circolare all’informatica (EMAF, 2018)? Nel lungo termine, per quanto tempo questi cicli saranno sostenibili? E ammesso che questi cicli siano chiusi, la loro velocità è sostenibile per l’ambiente (e per le nostre menti)?

La produzione di “macchine per eseguire algoritmi”

Anche nel mondo dell’intangibile la famosa espressione “matter matters too” (Georgescu-Roegen, 1979) ci ricorda l’importanza dei limiti dell’approccio puramente “estrattivo” dei materiali. Parliamo di processi irreversibili, con quantità decrescenti (fino all’esaurimento delle risorse) e con costi di estrazione in crescita esponenziale (Bardi, 2014). E questo vale anche per la costruzione delle “macchine per eseguire algoritmi“: la loro produzione richiede una lunga lista di materiali e molti di questi sono metalli rari. Questo rappresenta anche uno dei lati più oscuri dell’informatica: molti di questi materiali (non a caso chiamati “conflicts minerals“) provengono da aree del pianeta dove le condizioni di lavoro sono inaccettabili e includono il lavoro minorile (Nimbalker et al., 2014; Vazquez-Figueroa, 2010). I dispositivi elettronici contengono Tantalio, Tungsteno, Oro, Stagno, Litio, Berillio, Cromo, Fluoro, Cloro, Arsenico, Bromo, Cadmio, Antimonio, Mercurio, Piombo; ma soprattutto contengono le cosiddette “terre rare”, come quelle dei gruppi del Cerio (Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Prometeo, Samario), quelle del gruppo del Terbio (Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio) e del gruppo dell’Ittrio (Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio), oltre a molti elementi scarsi come Indio, Palladio, Cobalto, Platino. Ad esempio, per la produzione di touch-screen e display è fondamentale l’Indio e, con gli attuali ritmi di produzione e consumo, le riserve accertate bastano appena per i prossimi 14 anni (Greenpeace, 2017). Per avere un’idea dei ritmi di produzione, dall’inizio dell’era degli smartphone (2007) al 2017, appena dieci anni, ne sono stati prodotti 7,1 miliardi. Oltre ai materiali necessari per produrre questa montagna di smartphone bisogna anche contare l’energia che è stata necessaria per produrli: 700 TWh (oltre il doppio di quello che l’Italia consuma in un anno).

Inoltre, la produzione di chip, micropocessori e memorie, ha un impatto ambientale e sulla salute dei lavoratori delle “silicon foundry” noto fin dagli anni 80′ (Benson, 1985; SVTC, 2007).

Il consumo di energia delle “macchine per eseguire algoritmi”

La connessione informazione-energia è stata dibattuta in diversi momenti nella storia della scienza. Uno dei più famosi è legato alla provocazione di James Clerk Maxwell nel 1867 con il suo famoso “Maxwell’s demon“, un esperimento mentale dove una creatura ad altissima velocità è in grado di riconoscere e separare le molecole lente da quelle veloci creando così una differenza di temperatura e contrastando la legge dell’entropia: “… if we conceive of a being whose faculties are so sharpened that he can follow every molecule … He will thus, without expenditure of work, raise the temperature of B and lower that of A, in contradiction to the second law of thermodynamics…” (J.C.Maxwell, lettera a P.G.Tait, 11 December 1867) (Leff e Rex, 1990).

Ma l’acquisizione di informazione richiede una spesa di energia, come dimostrano i fisici Leo Szilard nel 1929 e Leon Brillouin nel 1953, l’informazione non è gratuita (Szilard, 1929; Brillouin, 1953). Per esempio, alla temperatura t = 25 °C elaborare un bit al secondo richiede circa 285.5 x 10-23 watt (Landauer, 1961).

Dunque elaborare (e spostare) bit non è gratuito. Per avere un’idea degli ordini di grandezza in gioco, i giganteschi datacenter del “cloud computing”, dove si concentra sempre di più la potenza di calcolo a livello planetario, consumano energia nell’ordine dei 420 TWh. Ma i datacenter (peraltro in crescita del 25% anno) rappresentano solo circa il 10% dei consumi informatici: le reti (router, canali di trasmissione, reti IP, etc.) consumano circa il 20%, le linee fisse (ADSL, fibra, etc.) circa il 45% e le linee mobili (4G, 5G, etc.) circa il 25% (Ericsson, 2016). Quanta energia sarà necessaria per sostenere le infrastrutture informatiche nel lungo termine? Se invece guardiamo ai dispositivi mobili, agli smartphone, tablet, etc. ciascuno richiede circa 5 Kwh all’anno per il suo uso (EPRI, 2017).

Lo smaltimento delle “macchine per eseguire algoritmi”

Il problema dello smaltimento dei rifiuti elettronici (dispositivi alla fine del loro ciclo di vita o che sono inutilizzabili per problemi di standard, etc.) è uno dei più urgenti da affrontare per connettere seriamente l’informatica alla sostenibilità. Nella maggior parte dei casi viene affrontato in modo improvvisato nei paesi del Sud del mondo con conseguenze disastrose per la salute degli umani e dell’ambiente (molti di questi dispositivi contengono sostanze tossiche).

Nel 2014 la United Nations University ha stimato che circa 42 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici (dei quali circa 3 milioni di tonnellate di smart-phone) sono andati dispersi malgrado il valore e i rischi connessi ai materiali contenuti in essi (Baldé e al., 2014). Diventa urgente investigare la destinazione di questi rifiuti: il Blacksmith Institute e la Green Cross Switzerland hanno stimato che il luogo più inquinato del pianeta è Agbogbloshie, vicino Accra in Ghana, una montagna gigantesca di rifiuti elettronici che cresce al ritmo di 215.000 tonnellate all’anno (Bernhardt e al., 2013).

Connettere informatica e sostenibilità

I limiti fisici del pianeta, dal lontano primo rapporto del Club di Roma nel 1972 (Meadows e al., 1972) sono ormai parte integrante dello scenario scientifico, sociale, culturale e politico per i prossimi decenni. Il prossimo rapporto sui cambiamenti climatici, previsto per Aprile 2019, si prevede che accentuerà ai massimi livelli l’allarme e la necessità di azioni concrete urgenti per la diminuzione della CO2 (IPCC, 2018). Ma tutto questo come si può applicare alle “macchine per eseguire algoritmi“? Il computer infatti non è una macchina qualsiasi, “il computer non è una lavatrice“, è una macchina di Turing che può aiutarci a diminuire il nostro impatto ambientale e migliorare la qualità della nostra vita, a rallentare l’entropia.

Dal punto di vista ambientale, è stato stimato, forse un po’ ottimisticamente che, mentre la CO2 generata dall’informatica è circa 1,25 GtCO2 (0,36 GtCO2 dai datacenter, 0,30 dalle reti e 0.59 dai dispositivi mobili delle persone), la CO2 che l’informatica potrebbe farci risparmiare è circa 12,1 GtCO2 a patto di fare, entro il 2030, progetti significativi nei settori manifatturiero, edilizia, agricoltura, trasporti, energia (GESI, 2015).

Tutto questo però lascia da parte i significativi impatti dell’informatica stessa: la difficile connessione tra informatica e sostenibilità è dovuta proprio a questo punto. La complessità di un bilancio approfondito dei due aspetti: l’energia richiesta e l’impatto dell’informatica stessa (produzione, uso e gestione dei rifiuti elettronici) rischia di compromettere i benefici provenienti dai processi di de-materializzazione. Spostando ed elaborando bit invece che atomi è evidentemente possibile aiutare la transizione verso un’economia meno material-intensive (Hilty, 2008) ma la complessità di questa transizione richiede evidentemente ancora molti studi e ricerche.

Fortunatamente anche tra i progettisti informatici è stata avviata una seria riflessione su questi aspetti. Ad esempio al Politecnico di Torino dal 2008 viene insegnata Computer Ethics, al Politecnico di Milano dal 2015: corsi dove gli ingegneri, i progettisti delle “macchine che eseguono algoritmi” vengono stimolati ad avere una visione sistemica dei loro progetti tecnologici.

L’intera comunità ICT (incluse le imprese, i policy maker, gli utenti) ha di fronte questa “sfida sistemica” per la sostenibilità a lungo termine dell’informatica. Ad esempio si potrebbe cominciare dalla riciclabilità dei dispositivi: il costo del riciclo dell’oro dai vecchi computer è già dello stesso ordine di grandezza del costo dell’estrazione del minerale (Step, 2018).

Emerge però la necessità di un ripensamento della progettazione stessa dei sistemi informatici, sono fondamentali le scelte fatte dai progettisti “at design stage” per rendere l’informatica recyclable-by-design (e repairable-by-design). Questo è possibile solo con un approccio modulare e le interfacce dei moduli sono interoperabili e con specifiche open (come nel mondo dell’hardware e software libero). Nel lungo termine approcci ancora più radicali dovrebbero includere la visione di tutti i prodotti industriali come “organismi con materia e informazione in circolo“, progettando sistemi “waste-free” (Lovins, 2008).

Eppure emerge la necessità di una riflessione ancora più approfondita riguardante la velocità dei processi che l’informatica stessa accelera al punto da far emergere un nuovo limite: dopo quelli del pianeta, ora stiamo toccando i limiti delle nostre menti iperconnesse nell’infosfera (Dewandre, 2014). Una riflessione su questi aspetti è stata avviata a livello europeo: forse per la prima volta nella storia dell’umanità dovremo ripensare, oltre alle dimensioni energia-informazione, anche alla dimensione del tempo, in particolare nell’informatica. La proposta di una “Slow Tech” è proprio in questa direzione: un’informatica centrata sull’umano, ambientalmente sostenibile e eticamente accettabile (Patrignani e Whitehouse, 2018).

Connettere seriamente l’informatica alla sostenibilità richiede, oltre ad una analisi ambientale in senso stretto, anche una nuova visione sistemica delle tecnologie dell’informazione. Anche nell’informatica tutta la riflessione sui nuovi paradigmi scientifici potrà portare nuovi frutti. Proprio la disciplina basata su quanto di più intangibile, l’informazione, è ancora troppo legata a modelli di conoscenza concentrati sulle entità, sulle proprietà della materia inerte, non cogliendo le nuove visioni che riconoscono l’unicità dei processi della mente umana, sull’importanza della dimensione temporale: progettare sistemi human-centred richiederà proprio queste competenze. Quando si include l’umano nella progettazione si entra davvero nel mondo della complessità.

Le nuove frontiere della fisica ci raccomandano di studiare meglio le interazioni e le connessioni piuttosto che le entità: anche l’informatica deve affrontare il grande problema dell’ingombrante eredità cartesiana che a volte ci impedisce di “connettere” (appunto). Siamo ancora troppo concentrati sulle entità e ci sfuggono le relazioni. Ma l’informazione è una relazione, una “differenza che crea differenze” (Bateson), implica la presenza di almeno due entità (chi trasmette e chi riceve). Forse una visione sistemica anche delle tecnologie dell’informazione è proprio la condizione necessaria per connettere informatica e sostenibilità.

Riferimenti

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Baldé C.P., Wang F., Kuehr R., Huisman J. (2014), The Global e-waste Monitor, United Nations University.

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