Fino a quando sarà il mercato a decidere sulla transizione ecologica, non ce la faremo mai. Il mercato è cieco, non ha morale, valori. Conosce un solo imperativo, la massimizzazione del profitto, e subito. Se bruciare petrolio fa guadagnare più che non bruciarlo, si brucia petrolio. Se bruciare carbone fa guadagnare di più che installare un campo eolico, si brucia carbone. Se bruciare combustibili fossili fa guadagnare di più perché gli effetti negativi (le esternalità, come le chiamano gli economisti per farle apparire fenomeni che capitano indipendentemente dalle azioni di chi le provoca) tanto li pagano altri, via a bruciarli. Ma ha senso? Possiamo accettare l’idea che una vita si salva solo se fa guadagnare di più che non salvarla? Certamente no, ma intanto lo lasciamo fare con le vite di tutti quelli che già oggi sono uccisi dalle ondate di calore, dalle inondazioni e dalle siccità esacerbate dal cambiamento climatico e dalla perdita di biodiversità. E lo lasciamo fare, spensieratamente, con la vita di tutti quelli che verranno dopo di noi, anche quelli che ci sono più vicini, figli e nipoti.

E così c’è chi si oppone (la nostra destra, per esempio) al regolamento europeo che privilegia il riuso al riciclo perché riciclare fa guadagnare di più (quelli che fanno il riciclo) che riusare, pur essendo evidente che riciclare richiede più risorse materiali ed energia, con conseguente impatto ambientale, che riusare; si annacquano (anche qui lo zampino della nostra destra) le misure volte alla necessaria riduzione dei consumi energetici, e quindi delle emissioni, del parco edilizio, perché chi vive delle rendite immobiliari sarebbe costretto a investire in efficienza energetica, e che importa se non farlo danneggia la collettività, il principio della massimizzazione del profitto non si tocca; si respinge la proposta di ridurre la quantità di pesticidi usati in agricoltura (ancora la destra, guarda caso, cavalcando altre più o meno giuste rivendicazioni), salvaguardando la salute degli agricoltori e nostra, perché toccherebbe gli interessi di chi li vende, le multinazionali dell’agrochimica.

E la lista di chi spinge l’umanità verso il baratro pur di continuare ad ammassare ricchezze potrebbe continuare ancora a lungo.

In testa a tutti gli autori del più grande crimine contro l’umanità che sia mai stato commesso nella storia dell’uomo da un gruppo di potere, il cambiamento climatico, ci sono le multinazionali del fossile. Multinazionali che – per arricchire sempre più i loro azionisti – invece di usare le immense risorse finanziarie, economiche e umane di cui dispongono per favorire la transizione verso le fonti rinnovabili, invece di riparare al danno fatto con piena criminale consapevolezza, continuano a investire nella ricerca di nuovi giacimenti, nell’aumento della estrazione da quelli esistenti, in nuovi gasdotti, in impianti di liquefazione, di rigassificazione, in navi metaniere. In vista di che cosa, quando tutti i paesi, almeno a parole, convengono sulla necessità di non immettere più gas serra in atmosfera a partire dal 2050? Il loro disegno è ormai chiaro: continuare a bruciare combustibili fossili, estrarre dalle ciminiere o addirittura dall’aria la CO2 prodotta dalla combustione e sotterrarla, in barba alle perplessità e preoccupazioni della comunità scientifica, facendo coprire alla collettività i costi del sotterramento. E a nulla valgono gli avvisi della Agenzia Internazionale dell’Energia che mettono in guardia sulla reale possibilità di mettere in atto un piano così gigantesco: sotterrare miliardi di metri cubi di CO2 entro il 2050, al di là dei rischi e dei costi. Non si fermano, usando, oltre alla corruzione del sistema politico, l’arma ormai ben rodata della disinformazione sistematica, attraverso il ricatto nei confronti dei media, essendo generosi inserzionisti.

Per promuovere la transizione energetica, necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo emissioni nette zero al 2050, all’interno dell’economia liberista dunque c’è una sola soluzione: renderla più conveniente dello status quo agli ammassatori di ricchezze. Per questo si introducono incentivi che rendono le fonti rinnovabili più appetibili delle fonti fossili, ma per perversa “par condicio” si sovvenziona pure lo sviluppo dei sistemi di cattura e sotterramento della CO2, sulla spinta delle multinazionali Oil&Gas. Il fatto è, però, che i soldi per gli incentivi vengono dalle tasse di tutti, anche di chi del cambiamento climatico soffre di più le conseguenze e meno ha contribuito, e non – come sarebbe giusto – esclusivamente di chi ha causato e continua a causarlo, arricchendosi.

Alla luce di tutto ciò è legittimo porsi la domanda: può il capitalismo salvarci dalla crisi ambientale che ha causato, come si vuole fare credere, oppure è geneticamente incompatibile con la natura e le sue leggi?

L’imperativo economico e culturale che caratterizza il capitalismo è la crescita senza limite. Il PIL deve crescere, perché il successo di un governo si misura da quanto è cresciuto, poco importa se intanto la sanità e la scuola sono andate in malora, e la disuguaglianza è aumentata.

Un imprenditore è di successo se ogni anno guadagna più dell’anno prima, anche se già ha tanto da non sapere come spenderlo, perché ha già raggiunto il massimo di qualità della vita ottenibile col denaro. Se invece un imprenditore non aumenta ogni anno la sua ricchezza perché ha come obiettivo migliorare la qualità della vita dei suoi dipendenti, o produrre in modo da minimizzare l’impatto sull’ambiente e sulla salute, non viene considerato di successo, perché il benessere ambientale e delle persone vale meno di un solido aumento della ricchezza, che è e deve essere alla base di tutto.

Una multinazionale che perseguisse gli stessi fini dell’imprenditore illuminato sopra evocato finirebbe per avere un tracollo in borsa, perché i suoi azionisti si libererebbero subito delle azioni, non accetterebbero di smettere di gonfiare senza limite il loro portafoglio.

Se un cittadino qualunque non ha risorse sufficienti per abbandonarsi alle lusinghe del consumismo più sfrenato è un fallito, così a lui e agli altri la pubblicità ha insegnato.

Ma c’è un problema: la crescita economica illimitata, postulata dal capitalismo, si sostiene sulla crescita illimitata della estrazione di risorse dall’ambiente e della immissione di rifiuti. Però l’ambiente ha una capacità finita di fornire risorse e di assorbire rifiuti. Scriveva negli anni’60 del secolo scorso l’economista Kenneth Boulding[1]: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”.

Se da un lago si estrae più acqua di quanta ne riceve dai corsi d’acqua che lo alimentano e dalla pioggia che cade, andrà progressivamente prosciugandosi, è inevitabile. Ed è quanto sta facendo il capitalismo con l’ambiente, lo sta prosciugando, seguendo una logica perversa autolesionista, perché alla fine saremo noi, parte integrante dell’ambiente che distruggiamo, ad essere distrutti.

Osserva Umberto Galimberti[2], che “il capitalismo si trova nella contraddizione di poter realizzare i propri scopi solo attraverso una progressiva distruzione della terra, in cui sono le risorse di cui il capitalismo ha bisogno per realizzare i suoi fini”. Quindi o si autodistrugge perché distrugge la sua base vitale oppure, come dice Emanuele Severino, citato da Galimberti: “si convince del proprio carattere distruttivo, e finisce con l’assumere come scopo non più il semplice profitto, ma la sintesi tra profitto e salvezza della Terra–e anche in questo caso il capitalismo perviene alla propria distruzione, perché assume uno scopo diverso per cui il capitalismo è capitalismo”.

Si sta scoprendo, ed è stato recentemente rivelato che lo aveva scoperto pure Marx[3] nei suoi ultimi anni, che il capitale deve sfruttare non solo il lavoro ma anche l’ambiente per prosperare.

Ma intanto, impermeabili a queste evidenze, ci sono quelli che confidano nella infinita capacità creativa dell’uomo, contando su nuove miracolose tecnologie per mantenere in piedi il capitalismo. Miracolose tecnologie che dovrebbero permettere la realizzazione della cosiddetta “crescita verde”, che pretende di portare avanti una crescita economica senza limiti in un ambiente con risorse limitate. Miracolose tecnologie quali la riduzione della temperatura della Terra attenuando, mediante particelle riflettenti iniettate nella troposfera, l’energia solare che arriva – con effetti indiretti che possono essere catastrofici; oppure ancora il fantomatico nucleare di IV generazione che ci fornirebbe tutta l’energia che vogliamo senza emettere CO2, o la sempre lì lì per essere realizzata fusione.

Tutto ciò per poter aumentare produzione e consumi energetici senza limite, marginalizzando le rinnovabili, perché è difficile fare diventare merce il sole e il vento, come si è fatto con un altro fondamentale bene comune, l’acqua. Ma per farne che, di questa energia? Per estrarre sempre più risorse, evidentemente. E da dove? Da un pianeta finito estraiamo risorse infinite?

E in che modo la crescita green può contrastare la crescente divaricazione fra ricchi e poveri, la crescente disuguaglianza, inevitabile conseguenza dell’accumulo senza limiti in un mondo finito? Ciò che si prende in più, in termini di risorse limitate che poi vengono trasformate in ricchezza, inevitabilmente si toglie ad altri. In che modo un sistema economico e culturale basato sulla competizione senza esclusione di colpi per crescere, crescere, crescere è compatibile con la solidarietà, con l’equità?

Il punto è che una civiltà in armonia con la natura si basa su valori radicalmente diversi da quelli che governano il capitalismo. L’avidità, l’accumulazione senza limiti deve tornare vizio, non virtù, come è nel capitalismo; la competizione deve cedere il passo alla cooperazione; la sobrietà deve tornare ad essere un valore, e il consumismo, nutrimento della crescita senza limiti e del degrado ambientale, un vizio da estirpare; l’equità deve sempre essere un principio guida. Sono i valori che, pure se troppo spesso nella realtà contraddetti, sono comunque stati considerati i valori-guida della civiltà umana fino a non molto tempo fa. Certo, anche in passato c’erano gli avidi, gli accumulatori di ricchezze senza guardare in faccia nessuno, ma chi lo faceva non aveva il plauso sociale e l’ammirazione che ha oggi chi si è rapidamente arricchito e continua ad arricchirsi a tutti i costi. Già Aristotele[4], condannava l’accumulo “senza limite alcuno di ricchezza e proprietà”, che chiamava crematistica: “Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione domestica [oggi usiamo la parola economia] e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene, e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito bramano mezzi per appagarli”.

E anche in passato c’erano i dilapidatori, quelli che “consumavano” patrimoni, ma non erano portati a esempio. Tra le massime che erano scritte nel pronao del tempio di Apollo, a Delfi, ce n’era una che diceva: “niente eccessivamente”. Oggi invece chi non consuma tutto rapidamente, chi è fuori dal consumismo compulsivo, è indotto a confondere la sobrietà con la privazione, e si sente socialmente escluso. Alla luce di tutto ciò, affidarci al capitalismo per salvarci dalla crisi ambientale che esso stesso ha causato, seguendo il miraggio della cosiddetta crescita “verde”, è come dare l’agnello in custodia al lupo


[1] Citato in: United States Congress House (1973) Energy reorganization act of 1973: Hearings, Ninety-third Congress, first session, on H.R. 11510. p. 248

[2] Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli, 2023

[3] Kohei Saito L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi, 2023

[4] Aristotele, Politica, Trad. Renato Laurenti, Laterza. 2021