Premessa

“Il cambiamento climatico e il degrado ambientale sono una minaccia esistenziale per l’Europa e per il mondo. Per superare queste sfide, il Green Deal Europeo trasformerà l’UE in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva, garantendo nessuna emissione netta di gas a effetto serra entro il 2050, crescita economica disaccoppiata dall’uso delle risorse, nessuna persona e nessun luogo lasciati indietro [i].”

Queste le parole usate dalla Commissione Europea, e poiché l’Italia dell’Unione Europea è stato membro, esse valgono anche per noi.

Il raggiungimento dell’obiettivo finale, emissioni nette zero al 2050, ha una tappa intermedia al 2030, anno per il quale la Commissione Europea fissa dei traguardi, quali la riduzione delle emissioni del 55% rispetto al 1990, e la copertura del 42,5% dei consumi totali di energia con fonti rinnovabili, e gli stati membri devono produrre un documento che indica come si raggiungeranno gli obiettivi; quello italiano è il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030 (PNIEC)[ii]. Il modo in cui si intendono rispettare gli obiettivi dati dalla Commissione per il 2030 è un importante indicatore di come ci si pone nei confronti della transizione energetica e del Green Deal in generale. Le scelte che si fanno per il 2030, infatti, delineano già il sistema energetico che si vuole costruire per il 2050, cioè la visione che si ha della transizione ecologica.

La Germania e il Portogallo, per esempio, dimostrano di voler puntare con decisione a un sistema energetico tutto fondato sulle fonti rinnovabili, sull’accumulo dell’elettricità e sull’uso dell’idrogeno verde (prodotto con fonti rinnovabili) in sostituzione delle fonti fossili in alcuni processi industriali.

Diverso è il futuro prefigurato dal nostro PNIEC. Il piano rispetta appena gli obiettivi indicati dalla Commissione, che sono i valori minimi da soddisfare, e mostra di considerare la decarbonizzazione del sistema economico italiano come un obbligo subito obtorto collo, piuttosto che una opportunità.

Ed è un obbligo che viene soddisfatto nel peggiore dei modi: invece di puntare alla transizione completa dalle fonti fossili alle rinnovabili, accompagnandola con lo sviluppo di innovazioni di processo nei settori industria e agricoltura, preferisce lasciare largo spazio al gas fossile investendo in un nuovo progetto costoso, rischioso e di non provata efficacia: la cattura e stoccaggio della CO2 prodotta in alcuni settori industriali che continuerebbero a usare combustibili fossili. Inoltre soddisfa l’obiettivo relativo alle fonti rinnovabili dando largo spazio ai biocarburanti, molto più degli altri stati membri dell’UE.

La cattura e stoccaggio della CO2

La cattura e stoccaggio della CO2 (CCS, Carbon Capture and Storage) è una tecnologia che permette di evitare che l’anidride carbonica rilasciata dai processi industriali finisca in atmosfera, contribuendo al riscaldamento globale.

La CCS consiste nel raccogliere i fumi che escono dalle ciminiere delle centrali elettriche, delle acciaierie, dei cementifici, delle raffinerie, degli impianti di produzione di idrogeno, sottoponendoli a un trattamento chimico che permette di estrarne la CO2 pura, che viene liquefatta e trasportata in forma liquida mediante condutture fino a dove può essere iniettata in profondità sottoterra, in giacimenti esauriti di idrocarburi o in acquiferi salini, dove viene (o dovrebbe essere) stoccata permanentemente. L’efficienza reale di questo processo è piuttosto bassa, più bassa dell’80-90% che le compagnie petrolifere dichiarano: una indagine[iii] condotta su 11 impianti sperimentali di CCS già realizzati ha evidenziato che, tenendo conto delle perdite e delle emissioni di CO2 conseguenti all’uso dell’energia occorrente per il processo, con la CCS l’immissione netta di anidride carbonica in atmosfera si riduce di una quota che va dal 63 all’82%, a seconda del tipo di impianto. Dunque, la CCS non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma solo le riduce. Si tratta di una tecnologia che, come ammette Fathi Birol[iv], direttore esecutivo della Agenzia Internazionale dell’Energia che pure la sostiene, è “costosa e non provata”.

Ma non è solo il costo il problema della CCS, infatti l’adozione di questa tecnologia ha almeno due effetti collaterali negativi: a) gli investimenti richiesti nella cattura e stoccaggio di enormi quantità di CO2 riducono quelli sulle rinnovabili, sui sistemi di accumulo e sulle innovazioni di processo nei settori industria e agricoltura; b) si lascia la porta aperta alla continuazione della dipendenza dalle fonti fossili, di fatto realizzando una transizione monca e non definitiva.

Ma non basta, oltre agli effetti collaterali negativi, la CCS presenta rischi che sono intrinseci nella tecnologia stessa. Il primo è quello che si corre con lo stoccaggio sottoterra della CO2. Non è sicuro che resti lì per centinaia o migliaia di anni, come dovrebbe. Può percolare attraverso lo strato roccioso di copertura, può migrare lungo una frattura o una zona permeabile, può passare attraverso il pozzo di iniezione, o altri preesistenti. Inoltre ci sono le perdite lungo le condutture che portano la CO2 dal luogo di produzione a quello di stoccaggio.

C’è quindi il rischio che questa CO2, nel tempo, torni in atmosfera, se il fenomeno è lento. Se invece il fenomeno è rapido, come nel caso di una crepa che si apre, spontaneamente o a causa di un terremoto o di una azione terroristica, o una perdita nelle condutture, o altro, allora ci sono anche rischi diretti per la salute. Il motivo è che quando viene rilasciata, l’anidride carbonica si accumula a livello del suolo in depressioni naturali e spazi chiusi perché è più pesante dell’aria. Ebbene, già concentrazioni di CO2 superiori al 4% rappresentano una minaccia immediata per la vita umana[v], causando narcosi con delirio, sonnolenza e coma. Concentrazioni superiori al 10% portano all’asfissia. È già successo, nel 1986, a causa del rilascio improvviso di CO2 dal fondo del lago vulcanico di Nyos, in Camerun: più di 1700 persone sono morte[vi]. Più di recente[vii], una specie di nebbia si è insinuata nella valle che circonda il piccolo villaggio di Satartia, in Missouri, USA, causando un avvelenamento di massa da CO2. In pochi minuti, dopo aver respirato l’aria, i residenti hanno avuto sintomi di soffocamento e alcuni sono svenuti. Quasi 50 persone sono state ricoverate in ospedale, trasportati con difficoltà, perché i motori dei mezzi di trasporto non si avviavano a causa dell’eccesso di CO2 in aria. Il disastro di quel giorno è stato causato dalla rottura di una conduttura di anidride carbonica che ha formato una specie di lago di CO2 sul fondo valle, la nebbia che gli abitanti hanno visto. In un altro caso[viii], la scuola di un paesino del Wyoming, USA, che si trova nel mezzo di un giacimento esausto di petrolio ha dovuto essere chiusa a causa della tossicità dell’aria che vi si respirava. Tossicità dovuta alle esalazioni di un pozzo, situato vicino la scuola e abbandonato da tempo. Le esalazioni erano iniziate da quando il giacimento esausto era stato utilizzato per stoccare la CO2. Questo episodio indica che ogni singolo pozzo di un giacimento esaurito in cui venga stoccata la CO2 deve essere sigillato e monitorato per centinaia di anni. Si farà? E a spese di chi?

Da notare, inoltre, che l’iniezione di CO2 sottoterra potrebbe innescare piccole attività sismiche e non irrilevanti sono poi gli impatti sugli ecosistemi.

Le compagnie Oil&Gas spingono molto per questa tecnologia perché se si afferma possono continuare a estrarre, vendere e fare bruciare il loro prodotto, e in più fare pagare anche il sotterramento del rifiuto che ne deriva. Infatti sono loro stesse ad avere le capacità tecnologica di estrarre la CO2 dai fumi di combustione, liquefarla e pomparla sottoterra. Doppio guadagno, anzi triplo, o quadruplo, perché se la CO2 si pompa in un giacimento di idrocarburi esausto, che è quello che oggi si intende fare nella maggior parte dei casi, si spreme tutto quel petrolio o gas che è ancora rimasto e che non viene fuori da solo, e questo “succo” si vende. Si vende e naturalmente poi si brucia da qualche parte, producendo quindi altra CO2 – secondo alcuni più di quella che si sotterra[ix] – annullando i vantaggi ambientali dichiarati. Ma la convenienza per le compagnie Oil&Gas non sta sono in questo. Posti in cui la CO2 si può sotterrare non sono dappertutto. Quindi bisogna estrarre la CO2 nel luogo di produzione e convogliarla nel luogo di sotterramento mediante apposite tubazioni, che vanno costruite, da loro, s’intende – con l’impatto ambientale che ne consegue. Un business fantastico, e costoso, ma tanto l’obiettivo è fare ricadere sulla collettività il costo di tutto il processo, dalla cattura al sotterramento. È quello che sta già avvenendo negli USA, dove c’è un sussidio statale che va da 50 a 85 $ per tonnellata di CO2 sotterrata.

C’è un modo però, dicono le multinazionali del fossile, per evitare il trasporto della CO2 da dove si produce al quello in cui si sotterra: estrarla dall’aria in un impianto situato proprio sopra il giacimento esausto o l’acquifero salino. Estrarre la CO2 dall’aria è più costoso e meno efficiente che estrarla dai fumi di una ciminiera ma ha il grandissimo vantaggio di eliminare qualsiasi vincolo all’uso dei combustibili fossili. Infatti si può continuare a scaldare le case con le caldaie a gas, si può continuare a fare alimentare i veicoli con benzina e gasolio, tanto poi la CO2 immessa in aria, dall’aria si toglie e si sotterra. Si tratta di una tecnologia che è in fase di sperimentazione, su cui le Oil&Gas contano molto e prende il nome di DAC, Direct Air Capture (cattura diretta dall’aria), e sta pure ricevendo sussidi pubblici negli USA.

Specialmente se la DAC prenderà piede, un altro aspetto da prendere in considerazione è: per quanto tempo potremo andare avanti bruciando combustibile fossile sotterrando la CO2 prodotta? Cioè, quale è la quantità totale di CO2 che si può togliere di mezzo sotterrandola, tenendo conto della capienza dei siti nei quali questa operazione si può fare in condizioni di relativa sicurezza? Si è stimato che in pratica i siti che possono essere effettivamente utilizzati in tutto il mondo hanno una capacità totale che si saturerebbe entro 120 anni[x] (stime più ottimiste dicono 300 anni[xi]) con l’attuale produzione di emissioni, molto meno se aumenteranno, come è certo che avverrebbe se dovessimo abbandonarci alle lusinghe della CCS e alla continuazione dell’uso senza restrizioni dei combustibili fossili. Così, nel prossimo secolo potremmo già ritrovarci nella situazione di partenza, anzi più critica, perché – non dimentichiamolo – le riserve di energia fossile non sono infinite e quelle ancora estraibili avrebbero un costo molto elevato, e ancora una volta, per soddisfare l’avidità di alcuni, il cerino acceso – quello della vera, definitiva transizione energetica – viene passato nelle mani di quelli che verranno dopo di noi.

Da non sottovalutare è un’altra ragione che milita contro la CCS.    Con il diffondersi di questa tecnologia il metano continuerebbe a scorrere nelle tubazioni, con le note inevitabili fughe[xii], che contribuiscono in modo non indifferente al riscaldamento globale, essendo il metano decine di volte più potente della CO2 come gas climalterante.

E infine, la “madre” di tutte le ragioni: la CCS è una tecnica intrinsecamente insostenibile, che si basa sul modello lineare estrai-trasforma-produci-usa-getta (estrai-brucia-sotterra, nello specifico) che ci ha portato all’attuale crisi ambientale perché è in contrasto con col modello circolare che governa il funzionamento degli ecosistemi e della biosfera tutta. La CO2 prodotta non torna più in circolo, sempre la stessa, come avveniva prima che intervenissimo bruciando le fonti fossili, spezzando il ciclo naturale del carbonio. Dovremmo finalmente avere capito quello che la comunità scientifica ci dice da decenni: il solo modo di garantire prosperità ed equità all’umanità è quello di cercare di mimare il modello di funzionamento degli ecosistemi, cioè il modello circolare. Lo stesso dobbiamo fare noi, con l’economia circolare. Dobbiamo sempre chiudere i cicli.

La transizione energetica secondo il PNIEC 2030

E a fronte di tutte queste obiezioni, che vengono tanto dalla comunità scientifica quanto dalle associazioni ambientaliste, cosa propone il PNIEC?

Il PNIEC è un piano centrato su un presupposto, non dichiarato ma assolutamente evidente: l’obiettivo Italia a emissioni nette zero nel 2050 si realizzerà lasciando ancora largo spazio alle fonti fossili che, lungi dallo sparire dal sistema energetico, continueranno ad avere un ruolo di primo piano, grazie alla cattura e stoccaggio della CO2, tanto che anche la tecnologia DAC è contemplata. Non si possono non riconoscere le impronte del cane a sei zampe (c’è da dire che questo progetto non è solo della nostra ENI, perché è perseguito da tutte le compagnie che producono combustibili fossili, in tutto il mondo).

Si sapeva già[xiii] dell’intenzione dell’ENI di usare i giacimenti esausti dell’Adriatico per pomparci dentro CO2, ma il PNIEC delinea un progetto di ben più ampia dimensione, disvelando un piano volto a fare dell’Italia non solo un hub per il gas, estratto in Africa e nel Medio Oriente per trasferirlo ai vari paesi europei, ma anche hub per la CO2. Si parla di flussi di CO2 provenienti da altri paesi dell’area mediterranea, nell’ambito del progetto Callisto, che “coinvolge l’Italia lungo l’intera filiera CCS, fornendo un impegno significativo per lo sviluppo delle infrastrutture per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 in Italia. In questo progetto, l’Italia è il Paese destinatario delle emissioni di CO2 di altri Paesi, diventando il perno della filiera attraverso il suo sito di stoccaggio geologico nel Mare Adriatico”. Proprio una bella idea. Insomma, non solo dovremmo rinforzare la rete di trasporto del gas come hub europeo (che implica, fra l’altro, la realizzazione di una nuova dorsale adriatica), ma dovremmo anche costruire una nuova rete per il trasporto della CO2.

Tutto ciò per continuare a usare il gas procurato dall’ENI. E non solo i processi industriali più energivori non si devono toccare, non devono cambiare per soddisfare gli azionisti di quella che era una azienda di stato, ma anche il sistema produttivo agricolo non deve cambiare, e infatti così come le emissioni dell’industria non energetica nel PNIEC si prevede si riducano di pochissimo nel 2040 rispetto a oggi lo stesso vale per l’agricoltura: il modello dell’agricoltura industriale, con i fiumi di fertilizzanti e pesticidi e gli allevamenti intensivi, non si tocca se non marginalmente. Tutto deve restare com’è e quindi le emissioni si riducono di pochissimo. Altri players potenti fanno il loro mestiere.

C’è un’altra impronta del cane a sei zampe, nel PNIEC, e riguarda i biocarburanti, di cui l’ENI è il principale produttore in Italia, per i quali si prevede di andare oltre la soglia minima prefissata dalla Commissione (5,5%) attestandosi sul 10%. Ci sarebbe poco da ridire su questa scelta se non ci fossero buone ragioni che militano contro. I biocarburanti di cui si parla sono quelli cosiddetti di seconda generazione, che sono ottenuti attraverso tecniche di produzione che non comportano sottrazione di terreno agricolo alla produzione alimentare o cambi di destinazione agricola. L’ENI ha già realizzato progetti di piantagioni energetiche in Kenya e nella Repubblica del Congo[xiv].

E che c’è di male in questo? Il fatto è che un terreno incolto, con vegetazione naturale, può intrappolare più CO2 di quanta se ne risparmia se invece lo si coltiva per fare biocombustibili usati al posto dei combustibili fossili, e andrebbe fatta una accurata indagine caso per caso[xv]. Quindi le piantagioni energetiche che vanno sorgendo nei paesi in via di sviluppo in terreni prima occupati prevalentemente da vegetazione spontanea, possono finire per contribuire all’aumento delle emissioni, non alla loro diminuzione[xvi]. E poi c’è anche il grande danno inferto alla biodiversità, a causa dei fertilizzanti azotati e dei fosfati che inducono l’eutrofizzazione di corsi e specchi d’acqua, e soprattutto a causa dei pesticidi, che sono letali per molti insetti (particolarmente critico per la produzione agricola è l’impatto sugli insetti impollinatori, come le api). E bisogna aggiungere che quasi sempre queste azioni di “land grabbing”, di accaparramento di terre nei paesi in via di sviluppo, si accompagnano alla espulsione di contadini e allevatori da territori che erano loro ed erano la loro unica fonte di sussistenza.

Ad andare giù duro contro le coltivazioni volte alla produzione di biocarburante contribuisce anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia, con uno studio[xvii] in cui si mostra che in uno scenario mondiale che punta alla condizione emissioni nette zero al 2050, il ricorso ai biocarburanti implica già al 2030 un consumo di acqua pari a oltre la metà di quello di tutto il settore energia. Questo avviene in un mondo in cui circa un quarto della popolazione mondiale non ha accesso all’acqua potabile e la desertificazione avanza a causa del cambiamento climatico.

Infine, l’impatto sulla salute. I biocarburanti dovrebbero permettere di continuare a usare i motori a combustione interna, non passare completamente all’elettrico nella mobilità, ignorando il fatto che l’utilizzo di questi carburanti mantiene il problema dell’inquinamento atmosferico, che in Italia causa circa 60.000 morti premature l’anno solo a causa del particolato sottile (PM2.5) prodotto[xviii].

Ci si può domandare: perché tanto spazio a tecnologie che suscitano tante perplessità, e non procedere invece verso una decisa transizione dalle fonti fossili alle rinnovabili? La risposta è che non c’è altra soluzione se si vogliono lasciare inalterate o quasi le emissioni dell’industria non energetica e dell’agricoltura, come fa il PNIEC e non si vuole procedere nella applicazione dei principi dell’economia circolare[xix], uno dei pilastri su cui si basa il Green Deal Europeo[xx]. L’economia circolare richiede che i prodotti siano durevoli, riparabili, riusabili, rigenerabili e infine riciclabili. Se i prodotti durano di più se ne riduce la necessità di sostituzione, dunque occorre produrne di meno, quindi minore è l’emissione di gas serra, come minore è la produzione di rifiuti, la cui gestione dà pure luogo a emissioni. Il risultato finale della applicazione dell’economia circolare, quindi, è la minimizzazione dei rifiuti. Invece il PNIEC confonde deliberatamente l’economia circolare con il riciclo, puntando solo sull’aumento di quest’ultimo. Dunque non usa tutto il potenziale di riduzione delle emissioni contenuto nella applicazione corretta dei principi dell’economia circolare. Così come non prevede che gli stessi principi vengano applicati all’agricoltura favorendo l’agroecologia, pure sostenuta nel Green Deal nel piano “Dal produttore al consumatore”[xxi], che punta, fra l’altro, alla minimizzazione dell’uso dei fertilizzanti artificiali e dei pesticidi, con conseguente riduzione delle emissioni di gas serra, oltre che della perdita di biodiversità.

Scelte, queste, che portano necessariamente alla CCS e ai biocarburanti per stare entro i limiti di emissione e di percentuale di energia rinnovabile imposti dalla Commissione.

Contro il Green Deal

Il PNIEC è il principale tassello di un disegno più ampio che vede impegnate le destre europee: il boicottaggio del Green Deal al fine di ritardarne, forse impedirne, l’attuazione.

I segnali sono tanti. Riferendoci soltanto all’Italia, possiamo notare tutta una serie di ostruzionismi alla implementazione del Green Deal da parte dei rappresentanti dei partiti della nostra (ma non soltanto la nostra) destra al Parlamento Europeo:

  1. Opposizione allo stop ai motori termici alimentati a benzina e diesel nel 2035, perché costringe i produttori dei componenti a riconvertirsi, e non vogliono farlo.
  2. Opposizione alla proposta di regolamento sugli imballaggi, teso a favorire il riuso assieme al riciclo, perché colpisce la fiorente industria italiana del riciclo, che per crescere (e vuole crescere) ha bisogno di sempre più rifiuti, non meno, come vuole l’economia circolare.
  3. Opposizione alla direttiva “case green”, volta a stabilire un percorso con tappe definite nel processo di decarbonizzazione del parco edilizio, perché lede gli interessi di chi fa profitto con le proprietà immobiliari, dalle grandi società al singolo, ricco, cittadino, perché sono costretti a investire in efficienza energetica, pena la svalutazione del loro patrimonio.
  4. Opposizione alla Nature Restoration Law, che intende ripristinare il 20% delle aree marine e terrestri dell’UE, perché ha ricadute sul modello di produzione agricola, imponendo una forte riduzione dell’uso dei pesticidi, ledendo così gli interessi delle grandi aziende agricole e, sulle pratiche di pesca che danneggiano gli ecosistemi marini. 

Dunque strenua difesa di interessi corporativi di forti lobby, contro gli interessi della collettività.

A queste azioni bisogna aggiungere il piano di fare dell’Italia l’hub del gas per l’Europa. Si tratta di investimenti non da poco, in Italia e in Africa, che hanno tempi di ritorno piuttosto lunghi, certamente non meno di 20 anni. Affinché il ritorno dell’investimento ci sia, quindi, occorre che tra 20 anni, a ridosso del fatidico 2050, il Europa si consumi ancora un bel po’ di gas. E l’obiettivo emissioni nette zero al 2050 che fine fa? Due possibilità: a) si ritiene che il Green Deal fallirà (e si farà in modo che fallisca), b) Si ritiene (e si farà in modo che) anche gli altri stati membri continuino a consumare gas usando massivamente la CCS, rinviando a un dopo indeterminato il passaggio definitivo dalle fonti fossili alle rinnovabili. Non è escluso che si conti sulla “persuasiva” azione delle consorelle dell’ENI in Europa, BP, Shell, Total.

Come si spiega questo accanimento contro la transizione ecologica da parte della destra italiana, europea e non solo, perché è uguale anche altrove, degli USA all’Australia? La spiegazione sta nel fatto che la transizione ecologica, in realtà, non è una transizione ma un ribaltamento di paradigma economico e culturale. Il paradigma attuale, basato sulla crescita senza limiti, applicata tanto al PIL quanto al profitto individuale, sulla avidità e sul consumismo ha portato al superamento del limite di estrazione di risorse che il pianeta Terra può sopportare, con le conseguenze che stiamo vedendo e che saranno sempre più gravi, anche sul piano della crescente disuguaglianza, se continuiamo sullo stesso percorso. Il paradigma alternativo cancella, perché insostenibile fisicamente, ecologicamente e socialmente, il principio della crescita senza limiti, sostituisce al consumismo la sobrietà, torna a considerare socialmente inaccettabile, un vizio, l’avidità invece che una virtù da perseguire; è cioè è alternativo al capitalismo neoliberista e alla cultura che sottende. In questo paradigma alternativo è perfettamente integrata l’economia circolare, che è intrinsecamente in contrasto con il consumismo e con il mito del disaccoppiamento fra crescita economica (intesa come crescita del PIL) e estrazione di risorse; mito finora mai dimostrato e incompatibile con il secondo principio della termodinamica[xxii]. C’è da domandarsi, a questo proposito, perché mai invece la Commissione abbia la certezza di realizzare il disaccoppiamento, come esplicitamente indicato nella citazione all’inizio di questo scritto, nonostante i forti dubbi espressi persino dall’Agenzia Europea dell’Ambiente[xxiii]; forse perché quello della crescita senza limiti è il pilastro su cui si fonda il capitalismo neoliberista, e nessuno, tanto meno la Commissione Europea, può permettersi di metterlo esplicitamente in discussione. Le destre, i conservatori, con ogni probabilità hanno ben capito che dietro l’attuazione del Green Deal potrebbe nascondersi, come inevitabile conseguenza, l’affermazione del nuovo paradigma e, dato che nel loro DNA hanno la conservazione, non possono che opporsi con tutte le loro forze, per mantenere così com’è il sistema di potere economico, finanziario e politico.

Già pubblicato su Quaderni della decrescita


[i] European Commission, The European Green Deal – Striving to be the first climate-neutral continent, https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/european-green-deal_en

[ii] https://energiaclima2030.mise.gov.it

[iii] R. M. Cuéllar-Franca, A. Azapagic, Carbon capture, storage and utilisation technologies: A critical analysis and comparison of their life cycle environmental impacts, Journal of CO2 Utilization 9 (2015) 82–102 

[iv] IEA news, The path to limiting global warming to 1.5 °C has narrowed, but clean energy growth is keeping it open, 26 September 2023 – https://www.iea.org/news/the-path-to-limiting-global-warming-to-1-5-c-has-narrowed-but-clean-energy-growth-is-keeping-it-open

[v] USDA – US Department of Agriculture, Carbon DioxideHealth Hazard Information Sheet –

https://www.fsis.usda.gov/sites/default/files/media_file/2020-08/Carbon-Dioxide.pdf

[vi] J. Fogarty, M. McCall, Health and Safety Risks of Carbon Capture and Storage, JAMA, January 6, 2010—Vol 303, No. 1 – https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20051572/

[vii] John Woodside, Canada is going all in on carbon capture. Is anyone paying attention to the risks?, Canada’s National Observer,  October 11th 2023 – https://www.nationalobserver.com/2023/10/11/analysis/canada-carbon-capture-poisoning-rupture-pipeline-risks

[viii] Stephanie Joyce, What Happened In Midwest? The Mysterious Gas Leak That Shuttered A School, Wyoming Public Radio, November 7, 2016 – https://www.wyomingpublicmedia.org/open-spaces/2016-11-07/what-happened-in-midwest-the-mysterious-gas-leak-that-shuttered-a-school

[ix] Natasha Bulowski, What the heck is carbon capture? The pollution-cutting technology that’s got Canada investing billions, Canada’s National Observer, February 1st 2023 – https://www.nationalobserver.com/2023/02/01/explainer/what-is-carbon-capture

[x] Negative emission technologies: What role in meeting Paris Agreement targets? EASAC policy report 35 February 2018 – https://easac.eu/fileadmin/PDF_s/reports_statements/Negative_Carbon/EASAC_Report_on_Negative_Emission_Technologies.pdf

[xi] K. Binyek et al., Driving CO2 emissions to zero (and beyond) with carbon capture, use, and storage, McKinsey, June 2020

[xii] IEA, UNEP, The Imperative of Cutting Methane from Fossil Fuels,  IEA Publications, 2023 – https://iea.blob.core.windows.net/assets/9efb310e-94d7-4c46-817b-9493fe5abb0a/Theimperativeofcuttingmethanefromfossilfuels.pdf

[xiii] ENI, Cattura, stoccaggio e riutilizzo della CO2 – https://www.eni.com/it-IT/attivita/gestione-anidride-carbonica.html#:~:text=I%20progetti%20CCS%20di%20Eni&text=In%20questo%20ambito%20puntiamo%20a,circa%2050%20MTPA%20nel%202050

[xiv] ENI, Mobilità sostenibile, https://www.eni.com/it-IT/mobilita-sostenibile.html

[xv] Leon Merfort et al., Bioenergy-induced land-use-change emissions with sectorally fragmented policies, nature climate change, 26 June 2023, https://doi.org/10.1038/s41558-023-01697-2

[xvi] Horst Fehrenbach, Silvana Bürck, Annika Wehrle, The Carbon and Food Opportunity Costs of Biofuels in the EU27 plus the UK, ifeu – Institut für Energie- und Umweltforschung Heidelberg gGmbH , January 2023 – https://www.transportenvironment.org/wp-content/uploads/2023/03/ifeu-study-COC-biofuels-EU_for-TE-2023-03-02_clean.pdf

[xvii] Tomás de Oliveira Bredariol, Clean energy can help to ease the water crisis, IEA,

 22 March 2023 – https://www.iea.org/commentaries/clean-energy-can-help-to-ease-the-water-crisis#:~:text=Many%20of%20the%20clean%20technologies,to%20produce%20clean%20drinking%20water

[xviii] European Environment Agency, Morti premature attribuibili all’inquinamento atmosferico, 25.11.2022 – https://www.eea.europa.eu/it/pressroom/newsreleases/molti-cittadini-europei-sono-ancora/morti-premature-attribuibili-allinquinamento-atmosferico

[xix] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni – Un nuovo piano d’azione per l’economia circolare Per un’Europa più pulita e più competitiva, COM(2020) 98 final – https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:9903b325-6388-11ea-b735-01aa75ed71a1.0020.02/DOC_1&format=PDF

[xx] Commissione Europea, Il Green Deal europeo – COM(2019) 640 final – https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:b828d165-1c22-11ea-8c1f-01aa75ed71a1.0006.02/DOC_1&format=PDF

[xxi] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni – Una strategia “Dal produttore al consumatore” per un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente, COM(2020) 381 final – https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:ea0f9f73-9ab2-11ea-9d2d-01aa75ed71a1.0009.02/DOC_1&format=PDF

[xxii] Federico M. Butera, Affrontare la complessità – Per governare la transizione ecologica, pp 257-268, Edizioni Ambiente, 2021

[xxiii] R. Strand et al., Growth without economic growth, 20 apr.2023, European Environment Agency – https://www.eea.europa.eu/publications/growth-without-economic-growth