Il Green Deal rappresenta il più grande progetto strategico della storia dell’Europa: entro il 2050 diventare il primo continente carbon-neutral. Il piano prevede:

– la transizione verso le energie rinnovabili e una svolta epocale verso l’economia circolare (affordable secure energy, zero pollution, 2030: -50% emissions, 2050: zero emissions);

– la mobilità sostenibile e intelligente (smarter transport);

– il rispetto degli ecosistemi e della biodiversità e una grande attenzione all’intera filiera del cibo (high-quality food) (EU, 2019).

Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Information and Communication Technologies, ICT) svolgono un ruolo centrale in questa strategia sia per abbattere la produzione di CO2 (“usare i bit per consumare meno“), sia nella nuova attenzione all’impatto ambientale delle stesse tecnologie (“consumare meno per usare i bit“).

L’importanza delle ICT nel prossimo futuro è sostenuto anche da filosofi attenti al ruolo delle tecnologie nella società. Floridi sottolinea la necessità di coniugare politiche “verdi” (come l’economia circolare e la sharing economy) e politiche “blu” (economia digitale), favorendo stili di vita non più basati sul consumo e sugli oggetti ma centrati sulla qualità delle relazioni e dei processi (Floridi, 2020).

Usare i bit per consumare meno

In generale, il raggiungimento degli obiettivi europei nel 2050 richiede una grande svolta in termini di disinvestimenti nelle fonti fossili e investimenti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili, per il risparmio energetico e la richiusura dei cicli nel rispetto degli ecosistemi. In particolare, basterebbe investire l’1,2% del PIL globale in tecnologie climate-friendly per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi (mantenere il riscaldamento globale sotto i 1,5 ºC) e quelli del Green Deal (emissioni zero entro il 2050) (De Weert, 2020).

Le ICT possono svolgere un ruolo fondamentale per la gestione più efficiente delle risorse e per la sensibilizzazione verso nuovi stili di vita più consapevoli. Alcuni esempi:

– il software per la gestione energetica degli edifici, uno dei punti centrali dello scenario futuro, permette di risparmiare circa 1,68 GtCO2;

– il software al cuore delle smart grid per la gestione efficiente della domanda/offerta nelle comunità energetiche, forse l’applicazione più promettente con risparmi stimati in 2,03 GtCO2;

– i sistemi per la gestione avanzata della logistica con la creazione di magazzini temporanei condivisi tra molti attori – lo stesso paradigma dei router di Internet che spostano bit – per spostare merci in modo efficiente, permetterebbe di ottimizzare l’uso delle risorse con risparmi di 1,52 GtCO2.

Altre applicazioni possono includere la gestione informatizzata delle mobilità, la dematerializzazione di processi, la diminuzione del traffico pendolare tramite un equilibrato mix tra lavoro in presenza e lavoro a distanza, la sensoristica per migliorare il rendimento dei motori elettrici (uno dei consumi principali del settore industriale) e per diminuire i consumi in agricoltura.

Nel loro insieme tutti questi contributi potrebbero far risparmiare circa 6,3 GtCO2 entro il 2050 (GeSI, 2015).

Un altro studio recente si è focalizzato sulle applicazioni basate su “intelligenza” artificiale in settori come energia, trasporti, gestione delle acque e agricoltura; i risultati sono globalmente interessanti: si potrebbero risparmiare fino a 2,4 GtCO2 entro il 2030 (PWC, 2020).

Complessivamente le ICT potrebbero dare un contributo significativo, considerando che le ultime stime danno le emissioni totali di CO2 nel 2019 pari a circa 43 GtCO2 (Harvey e al., 2019).

Un altro piano di lavoro completamente nuovo è quello della simulazione dei sistemi complessi, lo studio degli ecosistemi attraverso lo sviluppo di loro “gemelli virtuali”. Nella protezione civile, l’integrazione di grandi quantità di dati dai sistemi idrologici e dalle previsioni meteorologiche, permette di simulare eventi estremi e studiare i migliori strumenti di prevenzione delle catastrofi. Come pure lo studio di sistemi viventi complessi in modo non-invasivo per fare ricerca sulla biodiversità analizzando le tracce degli organismi (environmental DNA) tramite la raccolta e l’analisi di grandi basi di dati (Big Data) (Blair, 2020). Lo sviluppo di modelli software ad alta precisione, la grande disponibilità di dati e la potenza di elaborazione fornite dal digitale, permettono di migliorare la capacità di prendere decisioni per affrontare le sfide ambientali dei prossimi anni: dal monitoraggio dei consumi energetici al rilevamento dell’inquinamento atmosferico, dal monitoraggio dello scioglimento dei ghiacci (il termine “nevi perenni” sta per essere cancellato dalla glaciologia) alla prevenzione e gestione dei disastri ecologici.

La nuova visione di una “ricerca e innovazione responsabile” implica che i diversi attori (ricercatori, utenti, policy maker, imprese, associazioni) lavorino insieme per “allineare meglio il processo di innovazione e i suoi risultati con i valori, i bisogni e le aspettative della società” (RRI, 2020). Questo significa, ad esempio, la realizzazione di “cruscotti” alimentati dall’analisi di Big Data che, prima di realizzare un progetto, permettano di valutare approfonditamente tutti gli aspetti: gli eventuali benefici per la società, l’impatto sugli ecosistemi, l’erosione delle risorse naturali. Finora gli aspetti positivi venivano misurati solo in termini di PIL e questo non è più accettabile; nelle valutazioni dovranno entrare indicatori molti più avanzati come il BES, Benessere Equo Sostenibile, introdotto dall’ISTAT nel 2016, oppure il BLI, Better Life Index dell’OCSE. Ad esempio il BES richiede di misurare decine di variabili in categorie come istruzione, innovazione, ricerca e creatività, qualità dei servizi, salute, ambiente, benessere economico, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, relazioni sociali (ISTAT, 2020). Mentre il BLI misura: housing, income, jobs, community, education, environment, civic engagement, health, life satisfaction, safety, work-life balance (OECD, 2020). Le ICT risultano fondamentali per visualizzare i risultati di analisi di questi dati provenienti da grandi archivi digitali (Damiano e Poccianti, 2019).

Le ICT sono tecnologie abilitanti anche per l’economia circolare. La trasformazione epocale di interi settori industriali e delle rispettive filiere e catene del valore richiede di tenere sotto controllo gli oggetti durante tutto il ciclo di vita. Dal momento che viene rilasciato sul mercato, un prodotto è dotato di un “passaporto elettronico” con origine, composizione, riparabilità, riciclabilità (EU, 2019). La sensoristica e le applicazioni software connesse renderanno possibile conoscere posizione, funzionalità, tempo di vita, interventi di manutenzione effettuati, schemi hardware e versione software, permettendo ad ogni prodotto di essere riutilizzato, allungandone il tempo di vita.

Infatti l’economia circolare è basata sulla massimizzazione della vita dei prodotti proprio perché i relativi modelli di business passano dal possesso all’uso degli oggetti. Le tecnologie digitali risulteranno essenziali per gestire la mole di informazioni necessarie per abilitare questi nuovi scenari.

Consumare meno per usare i bit

Il digitale finora è stato visto come staccato dal mondo reale degli ecosistemi. La visione del software e dei dati nella “nuvola” (cloud) alimenta questo mito. Il software anima l’hardware, ma il software senza hardware non esiste. Il cambiamento climatico rende urgente un’analisi ambientale più matura anche per le ICT: consumare meno per usare i bit significa sviluppare tecnologie dell’informazione riusabili, riparabili, riciclabili, a basso consumo energetico, alimentate da fonti rinnovabili. La relazione tra tecnologie digitali e ambiente è una delle sfide più complesse del prossimo futuro e comporta lo studio dell’impatto delle ICT stesse, dal punto di vista dell’energia e dei materiali necessari.

Lo studio della relazione tra ICT e energia e, in generale, il dilemma informazione-energia è uno dei più intriganti della storia della scienza. Il primo a porre la questione fu James Clerk Maxwell che, nel 1867, aprì questo dibattito con il suo famoso “diavoletto di Maxwell“: un “esperimento mentale” dove una creatura ad altissima velocità, capace di discriminare tra molecole lente e molecole veloci, era in grado di creare una differenza di temperatura contro la legge dell’entropia: “… if we conceive of a being whose faculties are so sharpened that he can follow every molecule … He will thus, without expenditure of work, raise the temperature of B and lower that of A, in contradiction to the second law of thermodynamics…” (lettera di Maxwell a Tait, 11 Dicembre 1867) (Leff e Rex, 1990). Ma l’acquisizione di informazioni sulle molecole stesse richiede energia, come venne dimostrato dai fisici Szilard e Brillouin: l’informazione (acquisizione, memorizzazione, elaborazione) non è gratuita (Szilard, 1929; Brillouin, 1953).

Durante le settimane del lockdown per la pandemia del 2020 i cieli erano puliti soprattutto per la diminuzione del traffico e di molte produzioni industriali. D’altra parte è cresciuta esponenzialmente la quantità di persone connesse alla rete per lavoro a distanza, videoconferenze, uso di social network. Tutto questo ha richiesto quantità crescenti di energia elettrica. I data center italiani hanno registrato aumenti del 15% (Moss, 2020). A livello globale, i giganti del Web hanno dovuto ridurre la qualità video dei film in streaming per fornire il servizio ai milioni di utenti connessi contemporaneamente. Risultato: anche quest’anno il nord del pianeta genererà appena il 5% in meno di CO2 (Taylor, 2020).

Un’analisi più precisa dei consumi di energia delle ICT la dobbiamo a Andrae (2017) e Jirotka (2020): la stessa architettura della “nuvola” richiede dispositivi “always on” (e “always online“), la rete e i data center che erogano i servizi.

Le ultime stime danno una ripartizione dell’energia elettrica consumata:

– il 14% dai dispositivi in mano agli utenti (smartphone, computer, laptop, smart tv);

– Il 13% dalle reti (dal WiFi alle reti fisse e mobili);

– Il 58% dai giganteschi data center per alimentare e raffreddare i server (oltre il 33% dell’energia elettrica serve solo per l’aria condizionata) (Frazelle, 2020; Uptime, 2019).

A tutto questo bisogna aggiungere un 15% di energia necessaria per produrre tutti questi oggetti.

Altri fattori da includere nell’analisi e che richiederanno ulteriori ricerche:

– i miliardi di sensori dell’IoT (Internet of Things) che andranno prodotti, alimentati e smaltiti (IDC, 2019);

– le nuove applicazioni di “intelligenza” artificiale che si stanno rivelando essere “carbon hungry innovation” (“allenare” una sola rete neurale può arrivare a costare l’equivalente di 284 tCO2, bisogna iniziare a porre maggiore attenzione anche nel disegno degli algoritmi del software (Strubell e al., 2019; Crawford e al., 2019);

– applicazioni particolari come i bitcoin che per essere generati arrivano a consumare circa 45,8 TWh all’anno (Stoll e al., 2019) (come riferimento, l’intera Italia ha consumato nel 2019 circa 319 TWh).

I data center rappresentano il peso maggiore tra i consumi elettrici delle ICT, sono accesi 24 ore su 24, la maggior parte sono ancora alimentati da fonti non-rinnovabili (Lucivero e al., 2020) e stanno aumentando al ritmo del 10% ogni anno. Senza misure drastiche, entro il 2025 arriveranno a consumare il 20% dell’energia elettrica prodotta sul pianeta, connessa con circa il 5,5% della CO2 globale (Andrae, 2017; Jirotka, 2020).

Per realizzare gli obiettivi del Green Deal i policy maker dovranno stabilire delle chiare politiche anche per le ICT, spingendo la transizione alle fonti rinnovabili e verso un contenimento dei consumi. Anche tra gli utenti sta crescendo l’attenzione e chiedono ai titani del Web trasparenza sulle fonti che alimentano i data center (Greenpeace, 2019); cresce anche la consapevolezza che l’uso di qualsiasi app comporta un consumo di energia.

L’analisi dell’impatto delle ICT va fatta anche in termini materiali: la produzione dell’hardware richiede l’estrazione di minerali rari e il loro riuso e riciclo è una grande sfida per la nascente economia circolare.

Focalizzando l’attenzione su uno smartphone, un dispositivo-simbolo dell’era attuale, si scopre che l’84% delle emissioni di CO2 sono dovute alla sola produzione, un motivo in più per allungare il suo ciclo di vita e minimizzare l’estrazione di nuovi minerali (che implica costi umani e ambientali ben noti) (Vazquez-Figueroa, 2012).

Il problema dei rifiuti elettronici (e-waste) richiede di essere affrontato con la massima urgenza. Nel 2014 sono stati generati 42 milioni di tonnellate di e-waste e non è più accettabile esportare nel sud del mondo quantità crescenti di materiali che contengono minerali pregiati e sostanze tossiche per la salute degli umani e dell’ambiente. Al ritmo di 215.000 tonnellate all’anno di e-waste accumulati, la località di Agbogbloshie, vicino Accra in Ghana, è diventato uno dei siti più inquinati del pianeta (Baldé e al., 2014; Bernhardt e al., 2013).

Una delle misure chiave per ridurre l’e-waste sarà la riparabilità. Il Green Deal ha introdotto una misura “rivoluzionaria”: il “right to repair” (EU, 2019). Siamo ad una svolta storica perché questo richiede alle imprese di progettare con un approccio repairable-by-design oltre che recyclable-by-design. Finalmente si intravede la fine della follia dell’economia lineare, dell’usa-e-getta, dell’obsolescenza programmata, della mancanza di manuali di riparazione e pezzi di ricambio per le ICT. Dovranno finalmente dispiegarsi nuovi modelli di business basati su riparabilità, espandibilità, modularità, riciclabilità. Un esempio ormai famoso: la social-enterprise olandese Fairphone, il primo smartphone “equosolidale” (Fairphone, 2020).

La vendita di pezzi di ricambio ha fatto parte integrante della storia di molte industrie (si pensi all’industria automobilistica): è arrivato il momento anche per le ICT (Minter, 2016).

D’altra parte non bisogna ignorare uno dei paradossi fatti emergere dai più attenti studiosi dell’impatto ambientale delle ICT, il famoso “rebound effect” o “Jevons paradox“: dispositivi più efficienti rischiano di far aumentare gli acquisti dei dispositivi stessi, aumentando così la quantità di materiali consumati, di rifiuti da smaltire e di energia richiesta. Il paradosso: migliore efficienza si trasforma in un aumento degli utilizzatori e quindi in un aumento dei consumi (Hilty, 2012). Come pure non bisogna mitizzare il riciclo perché la crescita esponenziale di cicli da chiudere richiede essa stessa quantità crescenti di energia (Butera, 2020): è tempo di iniziare a pensare anche a “rallentare” i cicli, implicito nel concetto di Slow Tech: “… this emerging need to slow down ICT consumption cycles lies at the heart of the Slow Tech concept” (Patrignani e Whitehouse, 2018). Per vivere in armonia con i cicli naturali e per costruire una società più solidale è tempo di rallentare, di rendere desiderabile una comunità umana più resiliente, abbondante nelle relazioni e frugale nei consumi, una “abbondanza frugale” (Latouche, 2012).

Conclusioni

Nel 1966 Kenneth Boulding (1910-1993), economista-poeta dell’Università del Colorado e tra i fondatori della teoria generale dei sistemi, introdusse una metafora molto potente: l’economia dell’astronauta contrapposta all’economia del cow-boy. Nell’economia dell’astronauta, il pianeta Terra è come un’astronave dove gli umani sono i passeggeri che devono imparare a vivere con risorse finite, a minimizzare i consumi, a massimizzare il riciclo e usare solo energia solare. Contrapposta all’economia del cow-boy dove i pionieri vedono solo praterie sterminate e i limiti degli ecosistemi non vengono nemmeno presi in considerazione (Boulding, 1966).

Anche le ICT fanno parte dell’astronave Terra e anche la famosa “legge di Moore” (la potenza dei chip raddoppia ogni diciotto mesi) forse richiede di essere rivista.

In conclusione, le tecnologie digitali prospettano uno scenario interessante: da una parte permettono di usare i bit per consumare meno dall’altra è diventato urgente consumare meno per usare i bit. Il digitale stesso richiede un’attenta valutazione dal punto di vista dell’energia e dei materiali necessari. Solo con infrastrutture e dispositivi ICT a basso consumo, alimentati da fonti rinnovabili e coerenti con i principi dell’economia circolare sarà possibile contribuire agli obiettivi del Green Deal di emissioni zero entro il 2050.

Riferimenti

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– Blair, G. (2020). A Tale of Two Cities – Reflections on Digital Technology and the Natural Environment

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