Sembra proprio che la destra abbia piena consapevolezza delle cause della crisi ambientale, e quindi sa quali sono le azioni che bisognerebbe intraprendere per combatterla. E infatti non perde occasione di combattere, non la crisi ambientale, ma le azioni per porvi rimedio. Apripista fu Trump che fece di tutto per favorire l’industria dei combustibili fossili, mescolando nazionalismo e negazionismo. Trovandosi in Europa, con cittadini meno ingenui e manovrabili di quelli americani, la destra non osa essere apertamente negazionista, ma fa lo stesso bene il suo mestiere di boicottaggio della transizione ecologica. E non può non farlo, perché i conservatori sanno benissimo che la causa prima del cambiamento climatico e del rischio della sesta estinzione è proprio nel modello culturale ed economico di cui sono portabandiera e che difendono strenuamente. Quel modello che vede l’uomo al di sopra delle leggi che regolano la natura, e una società governata dal principio della crescita senza limiti della ricchezza, del consumismo, della estrazione delle risorse naturali, delle disuguaglianze, il tutto in un contesto di lotta senza quartiere fra lupi affamati.
In questo momento storico c’è un grande pericolo per i lupi vincenti: che siano presi provvedimenti strutturali per affrontare la crisi ambientale, perché si tratta di provvedimenti che inevitabilmente – se efficaci – finiscono per minare alla base il modello economico, sociale e culturale che è l’habitat che permette loro di prosperare.
Ci si mette anche Papa Francesco a preoccuparli, non solo con la Laudato si’, ma ancora in questi giorni con il messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, quando condanna il “consumismo rapace, alimentato da cuori egoisti” e le “politiche economiche che favoriscono per pochi ricchezze scandalose e per molti condizioni di degrado decretano la fine della pace e della giustizia”; e aggiunge che occorre “iniziare una transizione rapida ed equa per porre fine all’era dei combustibili fossili”, e che “è un controsenso consentire la continua esplorazione ed espansione delle infrastrutture per i combustibili fossili”.
I conservatori si sentono accerchiati, e prendono i provvedimenti che ritengono più efficaci per continuare a garantire che tutto resti come prima.
In questo contesto si possono comprendere le posizioni assunte dalla nostra destra negli ultimi mesi in questioni ambientali, il contrattacco in sede europea: l’opposizione al bando delle auto a combustione interna dal 2035; il sostegno ai biocarburanti (che la UE e gli esperti bollano come ambientalmente dannosi); l’opposizione al regolamento europeo che mira a far prevalere il riuso rispetto al riciclo, in linea con i principi dell’economia circolare; l’opposizione alla nuova direttiva sull’efficienza energetica degli edifici, passo essenziale verso la decarbonizzazione al 2050. Tutto questo al fine di boicottare il Green Deal, cioè la transizione ecologica.
Non mancano le azioni e le non-azioni a livello nazionale, contro la transizione energetica. La prima è la non-azione di non eliminare con il necessario vigore le strozzature per lo sviluppo delle rinnovabili; vigore che invece si è trovato per imporre rapidamente i rigassificatori a Piombino e a Ravenna. La seconda azione riguarda il superbonus 110%; invece di migliorarlo, come sarebbe stato opportuno, lo abolisce, bloccando il processo di efficientamento energetico del parco edilizio italiano. In coerenza, in questo, con l’opposizione alla nuova direttiva sugli edifici. La terza azione è l’avvio del piano per fare dell’Italia l’hub europeo per il gas; un piano che implica giganteschi investimenti – da nuove esplorazioni ed estrazioni a impianti di rigassificazione, gasdotti e navi metaniere – che, per avere un ritorno economico, si giustificano solo se il Green Deal fallisce e l’Europa userà ancora gas, e tanto, negli anni che ci separano al 2050, quando il consumo – invece – dovrebbe essere pari a zero. Evidentemente chi ha preso questa decisione ritiene di avere in mano tutte le carte giuste per farlo fallire, questo Green Deal, questa maledetta transizione ecologica che pretende di cambiare le regole del gioco.
Un altro segnale, questa volta implicito, di difesa del sistema che ha devastato e devasta l’ambiente è l’approvazione definitiva del ponte sullo stretto di Messina. Anche in questo caso, come per l’hub europeo del gas, si sta scommettendo sul fallimento del Green Deal. Infatti, uno dei pilastri su cui si fonda la transizione ecologica europea è l’economia circolare, la cui piena realizzazione implica una riduzione delle attività economiche basate sulla produzione di beni usa-e-getta, sia pure riciclabili, e un incremento di quelle destinate alla manutenzione dei prodotti, che dovranno essere sempre più durevoli, riparabili, rigenerabili, e quindi richiederanno di essere sostituiti meno frequentemente. La produzione dei beni di consumo è quindi destinata a diminuire, appunto perché questi beni si consumeranno di meno. Una prospettiva, questa, che favorirebbe automaticamente attività economiche e quindi occupazione al sud, perché la riparazione, lo scambio, il riuso non possono che farsi localmente, mentre la produzione è di solito concentrata in aree industrializzate, per lo più al nord.
Diminuendo la produzione, diminuisce ovviamente anche il flusso di merci che va dal produttore al consumatore. Inoltre queste merci, sottolinea il Green Deal, devono essere trasportate sempre meno su gomma e sempre più su rotaia e via mare. Quindi due forti ragioni per prevedere che da qui al 2050 il trasporto merci su gomma subirà una forte contrazione, anche attraverso lo stretto di Messina.
Pure per il traffico passeggeri su lunga distanza si prevede una forte diminuzione, con meno della metà, rispetto a oggi, del numero delle auto di proprietà, a favore del treno e della nave.
Inutilizzabile il ponte per chi abita a Reggio Calabria o a Messina, perché per imboccarlo da una delle due città si dovrebbero prima fare parecchi chilometri: ci si metterebbe meno col traghetto o con l’Aliscafo, e costerebbe di meno.
Sul ponte, quindi, transiterebbero prevalentemente i treni. Fare il ponte su questa base, per risparmiare 10-15 minuti su un percorso Roma-Palermo che – pure con una ipotetica alta velocità – richiederebbe parecchie ore, certamente non è economico, e nessun soggetto sano di mente penserebbe di finanziarlo.
Quindi non c’è dubbio, la ragione economica per la quale lo si vuol fare si basa sulla convinzione di potere garantire il fallimento del Green Deal, e dunque le merci continueranno a circolare copiose su tir e le vacanze in Sicilia si faranno partendo da Amsterdam o da Milano in macchina, provando l’emozione di attraversare il ponte e poi avere un’eccitante avventura su strade dissestate per raggiungere la meta (la viabilità siciliana è uno sfacelo).
E infine, la ciliegina sulla torta. Che fine ha fatto l’educazione ambientale nelle scuole? Il ministero dell’Istruzione, durante il governo Draghi, aveva dato un forte impulso a questo fondamentale passo verso la transizione ecologica. Erano state istituiti due comitati tecnico-scientifici volti uno alla realizzazione del piano RiGenerazione Scuola e l’altro alla preparazione delle linee guida per l’insegnamento dell’educazione ambientale nelle classi di ogni ordine e grado all’interno del percorso di educazione civica, essendo quelle esistenti alquanto misere e fuorvianti. Alla COP 26 di Glasgow il piano italiano per l’educazione ambientale fu presentato dal ministro Bianchi ed ebbe grande eco nella stampa internazionale, come esempio virtuoso da imitare. Perché si sa, la transizione ecologica è prima di tutto una transizione culturale, e quindi prima di tutto bisogna farla a scuola.
Proprio perché si sa, da quando si è insediato il nuovo governo sul fronte della educazione ambientale tutto tace, e possiamo facilmente prevedere che tutto tacerà.
In fondo la destra fa il suo mestiere, la transizione ecologica deve fallire.