In alcuni versi scritti nel 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale, Bertolt Brecht si indignava: “Quali tempi sono questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio!”.

La poesia A coloro che verranno torna alla mente oggi, al tempo di una pandemia catastrofica di cui ancora non conosciamo l’esito. Non è una guerra, sia chiaro, e non conviene chiamarla tale (a prescindere dalle evidenti differenze in termini di atrocità possibili) perché avremmo già perso in partenza: qualcuno forse pensa di poter vincere una guerra planetaria contro la natura? Ma se tale vogliamo intenderla, prendiamo almeno atto che l’abbiamo dichiarata noi! Non nasce da una maledizione divina, da un errore in un laboratorio, da un complotto per il dominio ma dalla distruzione dell’ambiente, dalla disintegrazione di ecosistemi conseguente alla perdita di biodiversità e dalla liberazione di patogeni non più relegati all’interno delle catene alimentari. Fuori da esse (dalle foreste e dagli ambienti naturali) sono liberi di estendere la loro presenza, attraverso i mercati di animali selvatici (come è successo in Cina) e la contiguità con le città degli uomini divoratici di alberi e di suolo. E, invisibili compagni dei nostri viaggi per il mondo, di diffondersi ovunque a grande velocità e anzi prolificare in quei formicai di cemento che sono diventate le città e le loro periferie.

Se questa è una guerra, gli alberi sono le vittime che ci precedono: quelli delle foreste distrutte da usi incontrollati del legno, dalle monocolture dell’agricoltura depredatrice, da pascoli estremi, da industrie energivore e inquinanti e da infrastrutture smisurate. Quelli bruciati dagli incendi o dai veleni industriali. Quelli dei parchi, dei giardini, delle alberate, dei frutteti urbani e periurbani sacrificati ai mercati della speculazione edilizia.

Altri virus hanno preceduto il covid 19 e altri seguiranno. Qualche anno fa gli epidemiologi avvertivano circa il prossimo arrivo di una nuova (dopo l’AIDS) molto grave epidemia: il Next Big One. È arrivato e la scienza, i competenti – non il vocio dei politici o dei social – dicono che altri arriveranno, non in quanto accidenti ma in quanto conseguenze del distruttivo rapporto degli uomini verso la natura, in un mondo sempre più fragile dal punto di vista ambientale. In questi giorni, travolti dall’emergenza, quasi non ne parliamo più, ma i disastri dei cambiamenti climatici, delle microplastiche, dell’alterazione dei cicli biogeochimici, dell’inquinamento delle falde, dell’acidificazione degli oceani, della perdita della biodiversità sono solo scomparsi dalle prime pagine, pronti a ripresentarsi.

Diventa allora necessario – ora che dal virus stiamo uscendo (questa è la speranza mentre scrivo, tra un mese chissà!) – affrontare in modo radicalmente diverso il nostro rapporto con la natura. Cambiare strada, dare una nuova direzione all’Antropocene, non più quella del cieco e delittuoso dominio dell’uomo, ma la ricerca di un equilibrio fondato sulle regole dell’ecologia, sulle fondamenta della cultura, sulla capacità di innovazione della scienza. Per la loro posizione nella biosfera, per i servizi economici, ambientali, culturali gli alberi dei boschi, delle campagne, dei giardini sono i nostri migliori alleati.

Di prossima pubblicazione su “Gattopardo”