Il fallimento della Conferenza sui Cambiamenti Climatici, che si è recentemente conclusa a Madrid senza il sostanziale raggiungimento di accordi vincolanti, a ben vedere era stato annunciato. La presidenza della Conferenza toccava al Cile, un paese emergente che si proponeva come leader di un continente molto importante per la lotta ai cambiamenti climatici e, più in generale, per la riduzione dell’impronta ecologica ed il raggiungimento della sostenibilità. Quasi tutti i paesi del Sud America, infatti, hanno livelli di sviluppo umano abbastanza alti, ma impronte ecologiche relativamente ridotte [1]. Sono paesi chiamati a dare un esempio decisivo che dovrà poi essere seguito anche dall’Africa e da molti paesi del Sud-Est Asiatico: mantenere nei limiti consentiti emissioni e consumi di risorse, ma continuare con il loro sviluppo umano.

Avere nel Cile il paese ospite della conferenza, faceva ben sperare, anche perché molti sforzi erano stato fatti da parte delle Istituzioni e dalla società civile locale per arrivare preparati all’incontro [2]. In più, il movimento ecologista promosso da giovani sostenitori di Greta e dei suoi venerdì aveva cominciato a rafforzarsi nel paese, così come nella maggior parte degli stati europei. Ciò che è successo, però, è stato visto da tutti. Una rivolta estremamente violenta è esplosa di colpo, gettando il Cile in una situazione critica che è andata peggiorando tra metà ottobre e i primi di novembre 2019, costringendo il governo ad una reazione molto dura con momenti di violenza eccessiva da parte di esercito e polizia e una generale incapacità di spiegare cosa stesse succedendo ai cittadini ed agli esterrefatti corrispondenti dei media stranieri.

L’ondata di protesta sociale ha avuto il risultato collaterale di costringere il Presidente a rinunciare alla Conferenza sul Clima, che fu sul punto di essere addirittura cancellata, quando la Spagna si offrì di riceverla a Madrid. Questo cambio di sede, sembrò ai più un dettaglio poco significante, ma invece potrebbe non essere stato affatto così. I paesi europei sono da tempo impegnati nella marcia forzata per contrastare i cambiamenti climatici, molto più di tutti gli altri. La società civile è sicuramente più profondamente consapevole in tal senso di quanto non sia negli Stati Uniti o in Cina.

Uno degli obbiettivi non scritti della Conferenza era quindi quello di rendere evidente all’opinione pubblica dei paesi del Sud America, uno dei continenti con la maggiore velocità di espansione urbana e con tassi di crescita economica sostenuti, la presenza di una società impegnata alla stregua delle nazioni europee per saldare una storica unione di intenti.  Tale dimostrazione di unità avrebbe potuto trascinarsi dietro anche i più timorosi paesi asiatici e forse addirittura scuotere la posizione molto radicale sul cambiamento climatico assunta dagli Stati Uniti di Trump. Invece, a Madrid, lontano dagli occhi della propria opinione pubblica, molti paesi del Sud America, con il Brasile di Bolsonaro in testa, hanno assunto ben altre posizioni, favorendo di fatto l’allontanamento reciproco di Cina e Stati Uniti, i due principali responsabili delle emissioni di gas da effetto serra.

Si ripropone, insomma, il dilemma annoso del diritto allo sviluppo dei paesi più poveri – ed anche di quelli non più tanto poveri – come appunto quelli sudamericani, contro la necessità di contenere le emissioni e il riscaldamento globale. Infatti è opinione diffusa tra la cittadinanza, così come la posizione ufficiale presa da molti governi dei paesi in via di sviluppo, che la responsabilità della riduzione delle emissioni vada assunta principalmente, per non dire totalmente, dai paesi già sviluppati. Questo si riflette anche nel mercato delle emissioni (che è stato appunto uno dei punti più critici discussi a Madrid), facendo sì che per esempio ci siano paesi che vendono i propri diritti ad emettere dimenticandosi che potrebbero averne bisogno in un futuro non lontano proprio per favorire o mantenere la propria crescita. Paradossalmente, molti di questi paesi, che assumono posizioni a difesa del proprio diritto allo sviluppo, sono anche quelli dove gli effetti del cambiamento climatico si stanno già dimostrando più devastanti. Il paradosso è doppio, perché l’adattamento dipende anche dal grado di benessere della società, che in generale qui è concepito come livello di crescita economica. In altre parole, senza sviluppo, anche la capacità di adattarsi sarà ridotta. Ma di quale sviluppo stiamo parlando? Il puro aumento del PIL è davvero un indice fedele del benessere? Quali sono, in definitiva, i punti di sutura e di cesura delle proteste cilene (a cui hanno fatto da contorno anche manifestazioni in Colombia, Ecuador e Bolivia) con la COP?

Innanzitutto, si dimostra che la pressione sociale per un miglioramento ulteriore delle condizioni di vita è prevalente sulle problematiche ambientali. La gente che è scesa in piazza a Santiago, Valparaiso e nelle altre città cilene vuole migliori stipendi, migliori pensioni, migliori servizi sanitari, migliore educazione. Il costo ambientale passa in secondo piano di fronte a queste urgenze sociali. E si badi bene che stiamo analizzando il caso di un paese relativamente avanti nello sviluppo. Come dimostrano anche casi europei – vedi ILVA per esempio – la precarizzazione del lavoro e la paura della perdita di status sociale portano quasi inesorabilmente all’abbandono dei piani di risanamento ambientale di strutture industriali nel nome della salvaguardia del lavoro. Un doppio vincolo terribile in cui si vengono a trovare coloro che, sebbene abbiano un disperato bisogno del lavoro, allo stesso tempo soffrono terribilmente le conseguenze del degrado ambientale.

In secondo luogo, la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza sembra essere uno dei punti cardine del problema. Far crescere il PIL, alla fin fine, non significa davvero migliorare nello sviluppo umano, anzi forse è addirittura vera l’equazione crescita = disuguaglianza su cui si rompono il capo fior di economisti da parecchio tempo [3]. Di certo la condizione effimera del modello economico cileno, estremamente neoliberale, è diventata evidente. Niente più miracolo di crescita e sviluppo, almeno non senza la generazione di una crescente massa di emarginati dal sistema (Marx a suo tempo, parlava di sottoproletariato urbano).

In terzo luogo, l’asimmetria dello sviluppo ha causato che questo sia visto in paesi come il Cile in una prospettiva da società dei consumi. Il Cile si è proposto come un modello da seguire per tutto il continente Sudamericano basandosi sulla presenza di grandi centri commerciali, sull’uso sfrenato di carte di credito e prestiti bancari, sulla sostituzione dello Stato da parte di privati nell’erogazione di praticamente tutti i servizi (dall’istruzione alla sanità passando per la gestione dei risparmi e dei fondi previdenziali), con conseguente azzeramento del debito pubblico ma con un insostenibile aumento di quello privato.  In più, esiste un segmento non trascurabile di popolazione estromessa dall’accesso a questi beni e servizi privatizzati. Le proteste scaturiscono quindi da una generazione che si è stancata di non avere un televisore, un frigorifero e una lavatrice ed ha deciso di andare a prenderseli con la forza. C’è ben poco di idealista infatti in questa protesta. Certo, si respira aria di piazze riempite da una massa che ha smesso di essere strumento passivo di pubblicità di ogni sorta, ma è anche vero che i saccheggi e gli incendi rispondono a un disprezzo individualista per la vita collettiva, lo spazio pubblico e gli ideali comuni.

Figura: PIL e indice di Gini

Finalmente, la cosa più triste è che tali proteste hanno di fatto oscurato ogni interesse nascente per la grande mobilizzazione per il clima. Purtroppo, anche in Europa, Greta ha smesso di fare notizia per lasciare spazio a ben altro. Mi ricorda un po’ quello che successe a Genova, in occasione del G8, quando la violenza – più da parte delle forze dell’ordine che dei manifestanti a dire il vero, parola di uno che c’era – proiettata in televisione ebbe il formidabile risultato di eliminare per sempre dallo scenario politico (almeno da quello italiano) un movimento trasversale come quello No Global, che stava diventando preoccupante per i potenti in quei giorni dell’ormai lontano 2001.

Erano Greta ed i fridays for climate destinati a una fine simile? Credo che non  tarderemo molto nello scoprirlo. Qui in Cile intanto, in molti continuano a lavorare strenuamente per gli obbiettivi che furono della COP e che restano validi per il futuro prossimo. Con la speranza che le divisioni possano essere superate, e allo stesso tempo con la paura di ritrovarsi un marzo 2020 ancora più caldo, con manifestazioni esplosive nel paese alla ricerca forse di una destabilizzazione perenne fino alla distruzione del modello economico attuale. Il che appare tutt’altro che disprezzabile come risultato, d’accordo, ma che deve essere sostituito con un modello nuovo, funzionante, che permetta una dinamica di dialogo tra paesi, classi sociali e generazioni. D’altra parte, bisogna anche dire che protestare e marciare non basta. Esigere soluzioni da altri nemmeno, come ben osservato da Massimo Cacciari di recente in un’intervista pubblicata su “Rep” (20 dicembre 2019) a proposito delle nostre sardine. Proposte concrete, per avanzare a passi definiti verso obiettivi riconosciuti, è ciò di cui abbiamo bisogno. Non vedo in chi, se non nelle nuove élite intellettuali, riporre fiducia per farlo. Però attenzione che qui in Cile – e forse anche in Italia e in altri paesi europei – la parola intellettuale è diventata ormai quasi un insulto. I movimenti sociali appaiono carichi di populismo e pronti a cadere in mani molto abili a manipolare social media e ad impadronirsi di impressionanti quantità di dati per spargere poi massivamente messaggi convenzionali di odio e rancore contro chi a buon diritto pensa di dover dirigere la società.

Come dovrà essere il mondo nei prossimi 10 o 20 anni per salvarci dalla miseria sociale e dal disastro ambientale? Quale sarà il nostro contributo come individui, come cittadini di una nazione, come abitanti del pianeta? Non posso fare altro che augurarmi un cambio radicale nella struttura sociale, che riscatti il valore del lavoro e della conoscenza collettiva, che ridia fiducia agli intellettuali e rigetti i sogni di sviluppo di tipo americano basati sull’individualismo e sulla violenta emarginazione del prossimo come via unica di crescita. Se vogliamo davvero fronteggiare le sfide che ci aspettano, dobbiamo pensare in modo diverso, credere nella scienza, nell’università, nella politica fatta di uomini e donne che decidono di offrire parte di sé alla collettività per guidare i passi comuni.

[1] Moran, D. et al. (2008). Measuring sustainable development — Nation by nation. Ecological Economics 64 (3), 470-474

[2] Muñoz, J. C., J. Barton, D. Frías, A. Godoy, W. Bustamante Gómez, S. Cortés, M. Munizaga, C. Rojas y E. Wagemann (2019) Ciudades y cambio climático en Chile: Recomendaciones desde la evidencia científica. Santiago: Comité Científico COP25; Ministerio de Ciencia, Tecnología, Conocimiento e Innovación. [3] Sibabrata, D. et al. (2018). Economic Growth and Development. Springer Nature Ed.